Dall’11 novembre è nelle sale italiane uno dei film più attesi della stagione, The French Dispatch, l’ultima produzione del geniale regista statunitense Wes Anderson.
La pellicola, basata sulla consueta armocromia che caratterizza i film andersoniani, stupisce gli spettatori con l’ingresso del bianco e nero che conferisce una sfumatura inedita allo stile del regista.
The French Dispatch è un film che parla di giornalismo, ma non è "sul giornalismo", come ha specificato Anderson stesso. La pellicola trae ispirazione dalle coloratissime e variegate edizioni del New Yorker che il regista leggeva da bambino.
In una recente intervista Wes Anderson ha confessato di essere stato rapito, nella sua immaginazione infantile, dallo stile principalmente narrativo del New Yorker, in cui il giornalismo si trasfondeva nel racconto quasi picaresco.
Un omaggio all’arte del raccontare
Proprio dalla dimensione narrativa e romanzesca del giornalismo Anderson trae ispirazione per comporre una delle sue pellicole più estrose e raffinate. La trama vuole essere un omaggio all’arte di raccontare storie, declinata in tutte le sue varie prospettive.
Non è certamente un caso che in The French Dispatch Anderson si serva di una commistione di tecniche disparate: dalla fumettologia alla grafica, dall’astrattismo al bianco e nero.
La trama di The French Dispatch
Il film vuole essere un omaggio a un giornalismo ormai scomparso, ma in fondo cela anche una critica allo stile americano, puramente didascalico di fare giornalismo.
La pellicola è composta in modo episodico: a ogni episodio - inteso come singolo articolo di giornale - viene affidata una narrazione differente.
La vicenda prende il via dalla morte dello storico editore della rivista, Arthur Howitzer, Jr., colpito da un attacco di cuore. In seguito a questo tragico evento inatteso la redazione della rivista The French Dispatch, che ha sede nell’immaginaria cittadina francese di Ennui-sur-Blasé, si riunisce per scrivere il necrologio.
Da qui si dipana una pluralità di narrazioni legate al ricordo di Howitzer: quattro in particolare gli articoli/storie su cui si focalizza la pellicola dando così avvio a una struttura episodica che, nel finale, torna al punto di partenza, ovvero alla morte dell’anziano editore.
The French Dispatch: una trama in quattro episodi
Abbiamo quindi un vivace reportage dei quartieri più malfamati della città firmato da un cronista in bicicletta. Segue la tragicomica vicenda di un galeotto artista di grande talento. Un focus su una rivolta studentesca che si trasfonde in una melodrammatica storia d’amore e morte. E, per finire, la cronaca di un rapimento annunciato che si lega inaspettatamente con l’alta cucina francese.
La trama di The French Dispatch è rocambolesca, spesso sconclusionata, e ricca di colpi di scena. A unire le varie storie sono lo stile inconfondibile di Wes Anderson, quella palette di colori pastello e le scelte cromatiche forti che tengono viva l’attenzione del pubblico, e l’innegabile pregio attoriale di un cast d’eccezione.
Un cast d’eccezione per The French Dispatch
Gli interpreti sono tutti attori di alto calibro che riescono a conferire il giusto spessore a una trama originale e priva di continuità. Troviamo un bravissimo Bill Murray nei panni dell’editore defunto, Tilda Swinton che veste le spoglie di un’eccentrica critica d’arte; Timothée Chalamet nelle vesti di uno studente ribelle e tormentato; una meravigliosa Léa Seydoux che interpreta una guardia carceraria divenuta musa ispiratrice; Owen Wilson è un creativo cronista in bicicletta. Eccezionale anche l’interpretazione di Frances McDormand, fresca di premio Oscar per Nomadland.
Anche gli attori di pregio cui vengono assegnati parti minori, in alcuni casi addirittura una manciata di battute, riescono a lasciare il segno: è il caso di Elisabeth Moss, Saoirse Ronan (quasi sprecata per la parte che le viene assegnata, ma capace di forare lo schermo con uno sguardo) e Willem Dafoe che appare in chiaroscuro per pochi ma indimenticabili istanti.
L’opinione: un film di pura regia
La mia personale opinione su The French Dispatch è che si tratti un film totalmente autoreferenziale, in cui Wes Anderson giochi a citare se stesso. Rimane una forte impressione visiva: l’estetica è perfetta, certe immagini restano impresse nelle retine anche parecchio tempo dopo la visione del film. Anderson compone una perfetta pellicola nel suo peculiare stile vintage pop, ma forse con l’intreccio stratificato delle narrazioni stavolta ha esagerato.
Wes Anderson ricostruisce, tramite l’ausilio del mezzo cinematografico, un mondo fatto di carta come rivelano le splendide copertine illustrate di The French Dispatch mostrate durante i titoli di coda (su imitazione del celebre New Yorker). Tuttavia questo fantomatico castello di carta crolla nel momento in cui l’arte sopraffina, portata all’ennesima potenza, della regia non riesce a tenere il passo della trama.
Alla fine rimane la sensazione di aver visto delle bellissime immagini, un’autentica opera d’arte, ma della trama, dei dialoghi resta ben poco, forse l’impressione di una parodia. Uno spettacolo di pura regia, in cui persino l’interpretazione degli attori è superiore allo spessore caratteriale dei personaggi. Un film che in sintesi parla di se stesso, come un’opera metaletteraria che riflette sul processo di scrittura e lettura - quindi di composizione e fruizione - e non sulla narrazione in sé.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “The French Dispatch” di Wes Anderson: un film metaletterario, ispirato alle pagine del New Yorker
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