Il casellante
- Autore: Andrea Camilleri
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Sellerio
Dall’entrata in guerra dell’Italia allo sbarco delle truppe anglo-americane si sviluppa la complessa narrazione de "Il casellante" (Palermo, Sellerio 2008), dove Camilleri sembra voler recuperare quella poetica del “luogo” fatta di cose familiari contrapposte all’anonimato delle metropoli. Esplorando un minuscolo frammento di realtà, in cui si riconoscono identità e relazioni, drammi e aspettative, egli fa leva sul gusto del bozzetto e dell’umorismo in cui agisce il fascino della “metamorfosi” classica.
Fabula tragicomica, dunque, "Il casellante" da cui emergono intriganti dati folclorici e angoscianti scenari a fosche tinte, comunque protesi verso dimensioni altre. I rimedi di medicina popolare contro la sterilità, la costruzione lungo la costa di bunker, i piccoli concerti che si tengono col mandolino durante i matrimoni o nel salone del barbiere, le beffe dettate dall’odio, la presenza di personaggi dai comportamenti mafiosi scandiscono, tra il malinconico e il mitico, un modo di essere paesano alla cui base stanno ignoranza e soprusi. Delizioso è l’incipit con la descrizione, nell’assolato paesaggio siciliano, di due treni a scartamento ridotto.
Camilleri rivolge poi lo sguardo ai caselli ferroviari che sembrano “fatti con lo stampino”, perché appaiono uguali. Quello situato tra Montereale (Realmonte) e Sicudiana (Siculiana) è la casa degli affetti, del dramma e del sogno. L’abitano Minica Oliveri e suo marito Nino Zarcuto, il casellante che come un Dio suona il mandolino. Grande lavoratrice la moglie, ricca di qualità casalinghe e dedita interamente al faticoso lavoro. Tante le avversità del destino che incombono su di loro. Sul viaggio esistenziale di entrambi aleggia un’atmosfera da tragedia greca, mentre una filosofia di vita fondata sull’oscura colpa originaria sembra inghiottire nel vuoto ogni loro energia. Intorno alla violenza sessuale da lei subita con la conseguenza della perdita del figlio, di cui era in attesa, è costruita l’ampia architettura dell’intreccio. Le pagine che descrivono la follia di Minica sono tra le più toccanti. La perdita della ragione la conduce ad una singolare metamorfosi. Si convince di essere una pianta bisognosa d’acqua: le radici, identificate con i suoi piedi, possono così alimentarsi per fare fruttificare l’albero. Li ha sprofondati nel terreno e da lì non si muove più. Vuole comportarsi come un vegetale che non mangia, non parla e sta immobile. Nino l’innaffia, la pota, la trapianta, l’innesta. Atto d’amore profondo, il suo, grazie al quale può mantenerla in vita quanto più serenamente è possibile!
Ecco, infine, la magia dell’imprevedibile: è l’intervento dell’improbabile estremo, surreale e onirico, a restituire ora la linfa del sorriso. Minica non è più legna da ardere; finisce di sentirsi infruttuosa e risorge a nuova vita come avviene in ogni favola dove alchemicamente il lutto dell’esclusione approda alla riva della luminosità.
La tensione morale è notevole all’insegna d’un realismo magico evocato con straordinarietà di linguaggio. La vita non sembra più soggetta alle ferree leggi del tempo e dello spazio, della causa e dell’effetto. La deduzione logica si scioglie e coaugula, nell’incantesimo; alla discesa agli inferi può così fare seguito la risalita verso quel giardino inventato con la creatività della scrittura:
"Nino, per la cuntintizza, addurmò tutte le cannile, che erano ‘na decina. Nella grutta, col bianco della marna, pariva che si era fatto jorno".
Il casellante
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