In principio fu il male
- Autore: Davide Gatto
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2021
“Si legge tutto d’un fiato”: è l’espressione più (ab)usata quando si voglia promuovere la lettura di una nuova pubblicazione, ma l’ultimo romanzo-saggio di Davide Gatto, In principio fu il male, edito da Manni nel 2021, a dieci anni da Il male minore, non si legge tutto d’un fiato. È un romanzo che, al contrario, costringe il lettore a fermarsi per comprendere, a interrogarsi, a scendere dentro se stesso, a chiedersi se ciò che legge lo riguardi, se non sia troppo — troppo duro, troppo “guasto”, troppo privo di filtri, troppo. La scrittura trattiene e lega occhi, cervello e viscere a ogni parola, concatenandoli lungo un percorso a ritroso che solo lo scrittore conosce e sembra assecondare come spinto da un’urgenza che è tutta interiore, che vuole sputare fuori tutto ciò che è dentro e non si contiene, seguendo il fluire delle storie e prima ancora dei pensieri, un fluire che anche la punteggiatura solo raramente prova ad arrestare, pensieri che prendono forma di parole, e che chi legge, forse, potrebbe rinunciare a comprendere, se si fermasse prima.
Prima di trovarsi avviluppato nella nebbia fitta fitta di un Quartiere della periferia di Milano (potrebbe essere un quartiere periferico di una qualunque città italiana, se non fosse per l’esplicito richiamo agli stabilimenti Falck di Sesto San Giovanni del penultimo capitolo, dove la grande storia fa irruzione tra i quartiericoli con le terribili vicende del terrorismo rosso e dell’esecuzione dei coniugi Ceausescu) e prima di trovarsi avviluppato nelle storie, o “storiacce” — come le definisce l’autore — dei singoli personaggi, periferia essi stessi di umanità. Una nebbia che pare voler coprire e simbolicamente rendere ancora più opache e grigie, appiattite, sfocate, le esistenze vuote di una gioventù senza sguardo e senza futuro, una gioventù parcheggiata in un’esistenza bloccata e asfittica “come un’auto senza le ruote”, inutile “come un salvagente sgonfio poggiato al muro”. E pur tenendo una certa distanza dalle loro storie, aiutato in questo da una scrittura che dà l’impressione di registrare più che di partecipare o giudicare, il lettore se ne sente inspiegabilmente attratto, come trascinato in un vortice di cui non vede il fondo, e come se il raggiungere il fondo di quelle esistenze fosse un po’ lo sprofondare “antropologicamente” dentro qualcosa che gli appartiene, uno sprofondare nelle proprie viscere, nel fondo di ciò che non vorrebbe vedere, che non vorrebbe trovare dentro di sé.
E allora, più si rimarca la distanza del lettore dai vari Max, Sergej, Tano Tacchetto, Ciccio, e dalle voci e dalle ricostruzioni dei quartiericoli che rimuginano e ricamano sulle vicende più tragiche e misteriose del Quartiere, degradandone ancor più vite e personaggi (si veda la storia della piccola Ramona, scomparsa misteriosamente e poi uccisa, che riporta alla luce un fatto realmente accaduto registrato dalla cronaca di quegli anni, o del suo probabile carnefice, il pretino Riccardo il bastardo), più il lettore si consegna alla coscienza di Lorena, voce di dentro e di fuori, personaggio tanto coinvolto nella vita del Quartiere, quanto culturalmente e potenzialmente capace di giudizio e di analisi su se stessa e sugli altri, e ancor più il lettore si consegna alla coscienza critica del dottor Giavazzi, che osserva tutto con una lucidità che ha il rigore della scienza, al quale l’autore riserva il compito di spiegare da ultimo l’assunto del romanzo che ne è anche il titolo: in principio fu il male.
Come l’autore stesso spiega in un’intervista, all’origine non c’è un’idea di bene che poi viene infranta e trasgredita, ma un’energia primigenia originaria che crea il male nel momento stesso in cui entra in azione: si nasce dal vuoto e dal vuoto si cerca di fuggire, e muoversi nel suo opposto, muoversi in questo pieno, vuol dire farsi largo, provocare dolore, fuggire da qualcosa proprio perché fondamentalmente ne siamo attratti, nel tentativo di arginare questa energia primigenia vocata al male creando delle ideologie positive di bene perfetto. Giavazzi è la coscienza critica di chi sa che questo è il movimento dialettico che può consentirci di spiegare la nostra vitalità senza esserne sopraffatti. E la storia degli uomini diventa un “susseguirsi senza fine di incistamenti, di rotture traumatiche dell’involucro protettivo e di scatenamento liberatorio dell’energia repressa”.
Si ritorna così, dopo il sogno di Giavazzi, come in una sorta di corto circuito che l’autore ha voluto connaturare al romanzo attraverso il suo stesso titolo, a voler riprendere la lettura daccapo, a ritornare sull’Omega (Horror vacui), a riavvolgere il filo e a riportare sul punto di partenza ciò che il romanzo ha fatto maturare, ciò su cui ha fatto luce: come a voler rileggere con un filtro nuovo, con un filo sotteso che lega a un meccanismo melmoso, invischiante, le vicende e i destini dei personaggi, pura energia in movimento lanciata verso l’a-morale, punto di coagulo di quelle storie e di quelle umanità periferiche. Vite deserte, solo qualche volta sfiorate dalla Grande Storia, quasi “a soffiare via con forza tutta l’aria morta che gravava sul Quartiere e a regalare loro se non la vita vera almeno il suo sentore”.
Solo allora, quasi ad annullare ogni coordinata di spazio e di tempo, si riesce a dare senso a quel deserto dell’incipit, a quel vuoto e a quel calore primordiali, a quell’uomo che si agita smarrito e sembra “un insetto che fatica a galleggiare nella luce che dilaga, a quella piatta distesa ribollente del suo stesso nulla”. Ed è proprio il paesaggio di segno opposto, il paesaggio livido e di ghiaccio, evocato nel sogno finale, l’inizio di tutto, a rimandarci al punto in cui tutto ha avuto inizio:
“A perdita d’occhio si stendeva intorno un’immensa pianura completamente imbiancata che all’orizzonte sembrava sfarinarsi dentro un cielo anch’esso bianco ma come polveroso. […] Solo allora nel diffuso biancore senza sole ho visto lo squarcio lucido e livido del fiume ghiacciato che andava a perdersi chissà dove […] ho intravisto solo il ghiaccio, le acque nere del fiume correre tumultuose e avvitarsi in mortali mulinelli […] guardavo con terrore attraverso il ghiaccio tutto quel nero senza fondo che si avviluppava e si sviluppava come un groviglio di bisce in un buco profondo della terra e non sapevo cosa fare. […] Dall’alto della sponda ho disteso lo sguardo angosciato a inseguire la lunga ferita scura del fiume nell’infinito corpo bianco di quel nulla e ho visto quello da cui tutto ha avuto inizio […]”.
In principio fu il male non è un romanzo che si legge tutto d’un fiato. È un romanzo che merita di essere letto.
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