La fortezza del castigo
- Autore: Pierpaolo Brunoldi
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Newton Compton
- Anno di pubblicazione: 2018
Come si scrive un romanzo a quattro mani? Difficilmente la coppia di autori lo rivela. Ognuno si riserva un capitolo, una parte, un paragrafo? O forse propendono per una stesura in forma collettiva? O, semmai, uno si occupa dei dialoghi, l’altro cura l’azione? Che noi si sappia, nemmeno Pierpaolo Brunoldi e Antonio Santoro hanno rivelato gran che. Preferiscono mantenere il segreto e un segreto è anche il grande mistero contenuto nel giallo storico esoterico che hanno realizzato, “La fortezza del castigo”, pubblicato da Newton Compton a marzo (pp. 384, euro 9,90 edizione a stampa, euro 2,99 ebook).
Sono due scrittori esordienti, ma non dilettanti. Pur laureato in veterinaria, Pierpaolo Brunoldi è animale da recitazione e scrittura: drammi per il teatro, sceneggiature per il piccolo schermo e il cinema, racconti vari, anche gialli, con uno sguardo appassionato al Maestro, Edgar Allan Poe.
Nato a Cava nel 1973, Antonio Santoro è regista, attore e drammaturgo, diplomato all’Accademia d’arte drammatica e laureato al DAMS. Dirige spettacoli e scrive testi teatrali.
Nel loro lavoro c’è storia, avventura e una pennellata di soprannaturale. È un prodotto narrativo che invece di far tremare le vene e i polsi (ben quattro) degli autori, ha finito per avere non poco per eccitare i lettori, soprattutto gli appassionati di historical thriller, che mettono in azione in ruoli insoliti personaggi famosi del passato.
Come i migliori prodotti del genere, questo è un romanzo storico che non rischia mai d’essere “antico”, tanto è movimentato e moderno, pur retrocedendo al 1200 di Francesco d’Assisi e delle crociate.
Gente di teatro gli autori e di cultura, quindi, tra le altre non poche attività alle quali si dedicano hanno aggiunto la scrittura storica d’azione. Certo, nel notare nella promozione di questo titolo l’insistenza sul paragone con “Il nome della rosa”, ho pensato sulle prime a un’esigenza puramente pubblicitaria. Sbagliavo. I punti di contatto col bestseller di Umberto Eco ci sono e l’accostamento non risulta affatto esagerato. Ricorrono ambienti monastici, sebbene non solo quelli. C’è un religioso protagonista, uomo di vastissima cultura. Non mancano dispute teologiche e la presenza incombente del volere, del potere e dell’infallibilità di un papa dell’importanza di Innocenzo III. Tuttavia, c’è meno filosofia e più fiction. La somma cultura del semiologo alessandrino lo induceva a digressioni erudite che nel lavoro dei due uomini di spettacolo mancano del tutto e non è che se ne senta nostalgia, perché dai thriller storici ci s’attende cappa e spada più che dotte conoscenze di apologetica, tomismo e dottrine di fede. Diciamolo: in queste pagine, una pugnalata alle spalle è meglio di tanta filosofia.
La trama? Il prologo è illuminante. Francia, 1266. Un inquisitore, il mellifluo e luciferino Marcus, è venuto a conoscenza di un piccolo libretto rosso manoscritto da Bonaventura da Iseo, che narra alcune vicende di San Francesco. Nel convento di Mantes, Bonaventura stesso lo ha nascosto sotto una copertina verde con caratteri arabi, una lingua che nel monastero nessuno conosce. Perché tanta necessità di tenerlo al sicuro da occhi indiscreti?
Marcus offre all’anziano francescano di fare del libro quanto più ritenga giusto. In cambio di questa libertà d’agire, chiede di sapere tutto e poi deciderà la sorte del suo interlocutore.
Il vecchio frate prende in mano il manoscritto, recita un Pater Noster e dalle pagine si levano lingue di fiamme che bruciano il volumetto. Ora è costretto a parlare, ma riferirà solo una parte della verità, occultando in un racconto più ampio quello che non può assolutamente rivelare a quell’uomo.
Il racconto di Buonaventura è il romanzo di Pierpaolo Brunoldi e Antonio Santoro.
Avete presente Guglielmo da Baskerville nel romanzo di Eco? Bonaventura lo ricorda da vicino. Come lui è francescano. Lo ritroviamo nel 1214 ad Altopascio, zona di transito appenninico, dove i Cavalieri del Tau hanno attrezzato un ospedale. È un ordine religioso-cavalleresco a protezione di pellegrini e viandanti. Indossano un mantello nero con una grande croce Tau bianca.
Il territorio appartiene al principe Oldofredi, uomo di spada e di collera. Al nobile piace questo frate solido, con le mani buone a colpire, all’occorrenza, pur vestendo il saio. C’è chi sospetta che nasconda un passato militare. Gli altri religiosi lo chiamano Maestro, traduce dal greco e latino, conosce l’alemanno e il provenzale, sa di leggi e diplomazia. È astrologo, farmacista, alchimista, attività questa molto utile al principe, che più delle donne ama solo la ricchezza e brama che qualcuno possa trasformare il metallo vile in oro. È il sogno medievale della pietra filosofale, tramandato fino a noi.
Bonaventura è anche esperto in arti officinali e scienza medica, conoscenze apprezzate dai cavalieri ospitalieri del Tau.
Come nell’abbazia cluniacense di Eco, c’è una ragazza, una singolare novizia quasi indemoniata, Fleur. È lei che conferma una tragica notizia, già appresa da Bonaventura. Francesco è stato prelevato di forza…
La fortezza del castigo
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