Maxima-Minima
- Autore: Ernst Jünger
- Categoria: Saggistica
"La metafisica deve diventare un lusso laddove il pensiero è diventato un lavoro. Quanto questo faccia parte dell’inevitabile alleggerimento che precede un salto lo dimostrerà il risultato (...) Se il calice dev’essere riempito di nuovo, prima deve essere svuotato."
In "Maxima-Minima, annotazioni su "L’Operaio"", pubblicato sulla rivista Antaios nel 1964, Ernst Jünger non si limita a una diagnosi del mondo moderno culminante in uno sterile elenco di eventi: in 123 pagine impensabili i fatti diventano invece presagi che partono da lontano e conducono, in un veleggiare remoto, al fondo originario dove, scrive il solitario di Wilflingen, “questo sei tu”.
Lungi dall’essere una semplice rivisitazione del celebre "L’Operaio" (1932), Maxima-Minima rilegge la forma dell’Operaio alla luce dei nuovi rivolgimenti cosmici in un quadro storico non più contraddistinto dalla “guerra dei materiali” ma solcato da altre plutoniche potenze. Nell’odierno interregno l’Alba è l’altra faccia del Tramonto, l’aurora e il crepuscolo si mescolano in un raggio chiaroscurale dove convivono accelerazione e lento decadimento, progresso tecnico e inquietudine, comfort e terrore, speranza e dolore.
Il lavoro automatico impone il suo implacabile metro e la tecnica incatena lo spirito all’ingranaggio alienante della macchina ingenerando una mutazione fisico-spirituale, un alleggerimento della sostanza funzionale al “salto”. Un salto dalla storia alla fine della storia, al di là del “muro del tempo”. I mutamenti in atto riflettono il transito da una stanza ad un’altra: da quella dei Pesci a quella dell’Acquario e segnalano una venuta, quella della Madre, cioè di Gea, il serpente originario nascosto da sempre nella nostra dimora. Gea si manifesta quando il Padre si ritrae. Con la dipartita del Padre si sbriciolano i confini, gli argini rassicuranti, le leggi definitive, le precisazioni virili, le nette distinzioni, gli ordini risoluti, le differenze gerarchiche e quelle apollinee. Con Gea risorge altresì suo figlio, il gigante Anteo.
Il mito racconta che Ercole, rampollo di Zeus, sconfisse il gigante sollevandolo da terra (cioè allontanandolo da Gea, fonte della sua invincibile forza). Da quel momento gli dèi olimpici subentrarono a quelli titanici e iniziò il dominio di Zeus, cioè del nomos, degli stati, della guerra e dell’Ordine: fine dell’età dell’oro. L’Anteo redivivo reca con sé l’attivazione della potenza dinamica che prelude all’unità del mondo in uno spirito che non si può definire e che accelera gli eventi al di qua del linguaggio. Ciò che accade promana dal profondo, il visibile dall’invisibile, il Fato dall’Inatteso. I fatti esistono anche ad un altro livello e affondano le loro radici nell’immobile indifferenziato, matrice del prisma, albore del mondo. Al di là del pensiero girano ignote le chiavi, la clessidra del tempo si ribalta, e la polvere, precipitando, riflette ogni volta l’Uguale. E’ perché il destino si cela nell’inaspettato che non si può conoscere in anticipo; tuttavia alcuni sanno leggere i segni e, a posteriori, si meravigliano delle loro prognostiche intuizioni, delle loro divinatorie aspettazioni. L’uomo cammina nel ghiaccio ottenebrato da spettri multiformi e caleidoscopici miraggi, la sua cecità nondimeno fa parte del piano; nel deserto inviolato si staglia l’ignoto; un’oasi, un “bosco”, una terra selvaggia e, nella più arrischiante delle avventure, una nuova forma di trascendentale ottimismo. Tra gli arcani sentieri del mondo l’atmosfera si fa inquieta, il viandante non può saltare la sua ombra, egli non cela il deserto perché, come scrive il poeta:
“Là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva.”
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