È giusto obbedire alla notte
- Autore: Matteo Nucci
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Ponte alle Grazie
- Anno di pubblicazione: 2017
Il pescivendolo, un quadro di Mario Sironi del 1927 in copertina, è la prima significativa immagine che apre la lunga narrazione con cui Matteo Nucci compone “È giusto obbedire alla notte”, il suo nuovo importante romanzo, denso, profondo, a tratti inquietante, pieno come è di personaggi, scenari, sentimenti, riflessioni sull’esistenza, sull’amicizia, sui legami familiari, sul rapporto con la città, Roma, che nel libro appare come un luogo sconosciuto, fiabesco, lontano, popolato da uomini e animali eccentrici, diversi, che hanno scelto di popolare l’ansa del Tevere quando il fiume ha abbandonato il centro della città. Non ci sono più gli argini ma solo rive umide, fangose, dove una vegetazione di canne, cespugli, eucalipti nasconde piccole baracche, prefabbricati, capanni, una chiatta dove si è insediata una trattoria, l’Anaconda, una cloaca dove vive lo spagnolo Luis, fuggito dalla città, come ha fatto anche il protagonista del romanzo, il Dottore.
In questa insolita comunità che Matteo Nucci sembra aver davvero conosciuto, tanto sono dettagliati i profili dei vari personaggi, uomini e donne, che la compongono, il Dottore è l’uomo del mistero a cui tutti portano rispetto, che ha portato una sorta di pace in quel mondo di emarginati, essendo lui stesso un emarginato per scelta. Da dove viene questo cinquantenne che scopriamo chiamarsi Ippolito, anche se ormai ha rifiutato tutto il suo passato, anche il suo stesso nome? Cosa studia? È davvero un medico a cui affidarsi?
Il romanzo è costruito in tre parti, e solo nella seconda, dal titolo emblematico, Fuga, riusciremo a capire di più le ragioni che hanno spinto il Dottore a costruirsi una vita tanto diversa dalla precedente. Tuttavia, quello che colpisce in “È giusto obbedire alla notte” è la maturità della scrittura con la quale Matteo Nucci costruisce le sue pagine e racconta la difficile vicenda che è alla base del romanzo: una lingua nella quale si mescolano un dialetto romanesco forte, pieno di frasi idiomatiche, interiezioni tipiche del parlato popolare, quello del pescatore Cesare, insieme a citazioni letterarie alte; lo spagnolo della cuoca Victoria e dell’amico Luis incontrano l’italiano incerto degli zingari come l’amico Milan, o delle ragazze dell’est, Helena, Ieva, Marina; l’inserimento del grido dell’arrotino, che tutti i romani ben conoscono
“Donne. Donne. È arrivato l’arrotino, l’ombrellaio. Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto. L’ombrellaio. Ripariamo cucine a gas. Abbiamo tutti i pezzi di ricambio per le cucine a gas”.
La canzone che furoreggiò nell’estate del 1961, Legata ad un granello di sabbia, canticchiata da Giulio, uno dei fratelli pescatori, che viene riprodotta fedelmente,
“Ai ai ai ai. Ai ai ai ai ai. Legandoti a un granello di sabbia na na na”.
Sono tutte mescolanze di registri comunicativi che arricchiscono il tessuto del romanzo, talvolta alleggerendo la tensione che si crea nelle pagine centrali del libro, dove il dolore nelle sue più profonde declinazioni sembra voler occupare tutto lo spazio.
Tuttavia dei tanti temi che attraversano il libro, quello che forse è il più significativo è il rapporto con la città. Roma viene attraversata in tutte le sue parti, nei quartieri più periferici, in quelli della borghesia, nelle parti più degradate, in quelle zone che nessuno di noi cittadini romani solitamente frequenta: Borgata Petrelli, via dell’Imbrecciato, via Campiglia Marittima, la Magliana Nuova, via delle Vigne, una toponomastica quasi sconosciuta, fino a raggiungere luoghi divenuti ora di attualità, come l’Ippodromo di Tor di Valle, sotto la cui tettoia, progettata dall’architetto Julio Lafuente, si svolge un episodio molto commovente, dove i cavalli corrono, volano, divengono personaggi della mitologia classica; e ancora la Roma sparita di Roesler Franz
“Eccolo qui il pittore che abbiamo sempre amato… Ettore Roesler Franz, pittore di Roma… Perché questa è la Roma che amiamo, vero Pip? La Roma perduta. La Roma sul fiume. Prima che costruissero i bastioni sul Tevere”
Bellissima la descrizione di una visita al cimitero del Verano, monumento della città ridotto dall’incuria ad un cumulo di solitari ruderi cadenti:
“Osservò gli steli bruciati di erba diradata che si moltiplicavano nelle aiuole terrose… Un refolo d’aria sembrava infilarsi giù dal Pincetto. Corvi neri ballonzolanti e guardinghi piluccavano molliche, insetti e vermiciattoli tra i viali. Si sentivano soltanto ronzii e fruscii, oltre ai gorgoglii dei rubinetti aperti di continuo nelle fontane segnate da cartelli di acqua non potabile…”
L’altro tema che sottende l’intero romanzo è la stretta relazione tra Matteo Nucci, studioso dei classici a cui ha dedicato il suo fortunato libro precedente, “Le lacrime degli eroi”, e il mondo della letteratura greca: Ippolito, il nome che l’autore dà al suo personaggio, è il protagonista di una tragedia di Euripide; Fedra e Lisia si chiamano le cavalline protagoniste di una magica corsa all’ippodromo mentre viene evocato
“il cavallo immortale, il cavallo senza parola, il cavallo che Zeus aveva regalato a Peleo, il cavallo di Achille”
Argo potrebbe chiamarsi un cane amato, la storia di Dioniso, il Tevere diviene spesso il divino Scamandro, Eurialo e Niso raccontati da Virgilio in realtà si muovevano non sui Colli Albani, ma a Dragoncello, nei luoghi de romanzo; infine, l’epigrafe che è posta nella prima pagina del libro e che gli dà il titolo, è un verso tratto dal canto VII dell’Iliade,
“Mettiamo fine ormai alla battaglia e alla lotta per oggi; poi combatteremo ancora, finché un dio ci divida e conceda agli uni o agli altri vittoria; ormai scende la notte; è giusto obbedire alla notte”.
Il fiume dominante, dunque,
“e l’acqua è una melma putrida che porta giù rami e sacchetti e gorgheggia in mulinelli improvvisi”
i pinetti dell’infanzia, le passeggiate al Pincio, ad osservare il funzionamento misterioso dell’orologio ad acqua, la Pasqua in una Roma deserta, una donna incontrata per caso a Trastevere dal nome evocativo, Anna Ducrot, la storia del cane Lampo, un campo nomadi dove si vivono amicizia ed accoglienza, il degrado insopportabile della Città Universitaria, nei cui vialetti con l’asfalto sollevato dalle radici dei pini Ippolito
“Camminò tra cartacce, cestini traboccanti immondizia, vetture parcheggiate, ambulanze dismesse e camioncini di servizi vari, dal plasma al rifornimento di vivande”.
Matteo Nucci ci accompagna nel viaggio interiore del suo protagonista, nella sua caduta e nel suo tentativo di rinascita camminando in una città metafora della contemporaneità, dove il Dottore, un intellettuale pieno di dubbi e di difficoltà incontra le realtà più disparate accogliendole, elaborando il proprio passato nel tentativo di ricostruire con gli strumenti dello studio, della passione, della generosità, una possibile altra esistenza.
Malgrado la cupezza di molte immagini, l’oscurità evocata continuamente, già nello stesso titolo, imprevedibilmente il colore dominante in questo romanzo importante è il bianco: se potessimo contare le occorrenze del termine bianco, si scoprirebbe che l’uso dell’anafora, che nelle pagine del libro è frequentissima, richiama continuamente il colore del giorno, della luce, della purezza: mura bianche, pagine bianche, cavalli bianchi, rettangoli di luce bianca, un vestito bianco,
“il cielo azzurro al mattino e quasi bianco”, un volto bianco, “dalla finestra filtra una luce bianca come bianca è ogni cosa”.
Matteo Nucci mette in questo libro cuore e immaginazione, cultura e sogno, maturità di una scrittura divenuta sempre più raffinata e capacità di organizzare una materia vasta, a volte troppo dolorosa, con la perizia dello scrittore che sa dove l’ispirazione lo sta conducendo. Il libro è candidato al Premio Strega. Giustamente.
È giusto obbedire alla notte
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