Incontro Melania G. Mazzucco a Piazza del Popolo in un luminoso e assolato pomeriggio di giugno, di fronte alla Chiesa degli Artisti. Non si tratta di un luogo qualunque, è la basilica di Santa Maria in Montesanto che conserva l’opera miracolosa dell’architettrice Plautilla Bricci, La Madonna col bambino, passata alla storia come un’immagine acheropita, non dipinta da mano umana.
Entriamo nella chiesa e osserviamo, in un attimo di riverente stupore, l’incanto del volto di Maria che emana una serenità totale, pura, inconsueta e sembra illuminare l’altare come un’aura di luce.
Non so quante volte sono entrata in questa chiesa e ho visto questo quadro, eppure non avevo idea che l’avesse dipinto lei, Plautilla.
confida Melania Mazzucco
L’ho scoperto solo quando le ricerche per il libro erano già avviate. Da quel momento ho cominciato a vedere il quadro in modo diverso, a prestarvi un’attenzione nuova.
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La nostra conversazione inizia proprio da qui, dall’ultimo libro L’architettrice (Einaudi, 2019), il “romanzo oceano” cui l’autrice ha lavorato per più di vent’anni ricostruendo con perizia e sentimento la vita di Plautilla Bricci, prima donna architetto della storia, vissuta nel Seicento.
Attraverso la scrittura, Melania Mazzucco è riuscita a far risorgere una donna dall’oblio cui la sua epoca l’aveva destinata. Tutto nacque molti anni fa grazie ad appena quattro righe riportate su un abbecedario pittorico del ’700 in cui veniva citata una certa “Plautilla di casa Bricci” seguita da quella strana parola “architettrice” che colpì la scrittrice come una folgorazione o, forse, come una domanda cui era necessario dare una risposta.
Appare subito chiaro che c’è molto di Melania in Plautilla e molto di Plautilla in Melania, e forse una delle ragioni per cui il libro emana un fascino magico e incantatorio è racchiusa proprio in questa segreta inscindibilità tra scrittrice e personaggio.
- Partiamo dal principio, che è poi anche la fine del romanzo, segnato da un oggetto inconsueto: un dente di Balena. È un oggetto simbolo, come un amuleto, che contiene una promessa “Le cose che non conosciamo esistono da qualche parte. E noi dobbiamo cercarle o crearle.” È quello stesso dente di Balena che nella conclusione l’autrice porge al lettore, chiunque egli sia, in un passaggio di testimone solenne, invitandolo a ricordare quel proposito e a tenervi fede.
Da dove nasce l’idea del dente della Balena? Esiste davvero?
Credo che tutti gli appassionati di letteratura siano affascinati dalle balene, forse inseguendo il mito della balena bianca Moby Dick. Il dente di Balena però esiste davvero. Ne trovai testimonianza in uno dei documenti chiave per il romanzo, il primo vergato forse proprio dalla mano di Plautilla. Era un inventario che conteneva la lista di titoli pubblicati dal padre: Giovanni Briccio. Tra questi figurava un testo dedicato a una Balena, che ha subito suscitato la mia curiosità e avviato la ricerca. Il testo tuttavia non risultava inventariato in nessuna biblioteca. Cerca e ricerca scopro che nel febbraio 1624 una balena si era arenata sulla spiaggia di Santa Severa e che l’evento era stato riportato nelle cronache dell’epoca. Una di queste cronache era quella del Briccio: un libretto di appena quattro pagine in cui veniva data la notizia. Nella conclusione faceva riferimento proprio al dente di Balena, conservato nel suo studiolo. Quella nota ha subito attirato la mia attenzione, perché anche mio padre, Roberto Mazzucco, era solito collezionare cose inconsuete: molte pietre, una rosa del deserto calcificata, persino un proiettile inesploso. Quegli oggetti sono stati la mia finestra sul mondo quando ero bambina. E ho pensato che anche per Plautilla, nell’infanzia, doveva essere stato così.
- Della storia di Plautilla c’è un particolare artistico che mi ha colpito: che si sia ritratta solo da anziana. Proprio lei che era stata la “ragazza infinita”, descritta come eternamente giovane. Si ritrae invece nell’immagine della levatrice di San Giovanni Battista nel quadro “La nascita di San Giovanni Battista di Poggio di Mirteto”, che è stata esposta nel corso della mostra romana di Galleria Corsini. Lei come spiega questa scelta?
Quel dipinto è liberatorio, molto creativo. Forse Plautilla vi racchiude il desiderio di durare, di dare un senso alla parola “perpetuo”. In fondo ci si ritrae un po’ per non morire. Era questo lo scopo delle immagini nel Seicento, il motivo per cui anche i panettieri e gli artigiani volevano farsi ritrarre e non solo i Re. I ritratti dei sovrani dovevano confermare il loro potere, dare al popolo l’impressione di essere costantemente sorvegliato, controllato. È la stessa ragione, a ben vedere, per cui i paesi dittatoriali sono tappezzati dai ritratti del monarca di turno.
Tornando al ritratto di Plautilla da anziana, può essere visto come una suggestione. Forse un omaggio al lavoro delle donne e al proprio.
- Nella ricostruzione storica dell’Architettrice, la narrazione dell’epidemia di peste ha un ruolo preponderante. Occupa svariate pagine ed è talmente veritiera da far rabbrividire. Oltretutto penso che per chi, come me, terminò di leggere il libro nel febbraio 2020, quelle parole apparvero quasi come una profezia della pandemia di Coronavirus.
Per scrivere quella parte mi sono servita di alcuni diari di cittadini romani che redassero le loro memorie del periodo della peste. Si tratta quindi di testimonianze autentiche, non inventate. E ancora adesso mi stupisce l’attualità di ciò che narravano. La città improvvisamente silenziosa in cui si udiva solo il suono del campanaccio dei medici, un po’ come nel 2020 per noi il suono delle ambulanze. E mi ha colpito anche l’illusione della scienza, il fatto che proceda per tentativi. C’era un medico, ai tempi, che capì le cause della peste e come isolare il morbo: ma era solo una voce tra mille, rimase inascoltato. Lo stesso è accaduto da noi nel 2020, quando si è levato un coro di opinioni contrastanti, e ognuno diceva la sua. La storia si ripete.
- Nel libro riveste un ruolo particolare il rapporto tormentato di Plautilla con l’abate Elpidio. Resteranno insieme, seppur clandestinamente, per tutta la vita. Saranno in un certo senso complementari perché entrambi costretti a vivere un’esistenza che non hanno scelto ma è stata loro imposta. Plautilla definisce Elpidio in modo contrastante: è “la sua parte migliore” ma anche la sua “disgrazia”. Sarà proprio lui a tradirla alla fine, a cancellarla dalla storia.
Credo che l’ambivalenza sia la chiave di tutti i rapporti profondi. Non dimentichiamo poi che Elpidio, in quanto agente del cardinale Giulio Mazzarino, era un uomo odiatissimo all’epoca. E per diretta conseguenza il discredito si ripercuote anche su Plautilla, le malelingue cercano di screditarla, di minare la reputazione di vergine che il padre le ha creato per proteggerla. E poi c’è questo dissidio interiore di Plautilla che per votarsi all’arte rinuncia alla vita di madre e di moglie. A volte si domanda se non sarebbe stata un’esistenza più facile. Ma non sarebbe stata se stessa in quel caso, lo dimostro attraverso il contrasto con la storia della sorella Albina. Se avesse seguito la strada di Albina probabilmente Plautilla non sarebbe diventata “l’architettrice”, ma sarebbe morta di parto.
- I personaggi di Margherita e Virginia, le due ragazze perdute. In loro Plautilla scorge per un attimo le sue possibili eredi, eppure è destinata a perderle entrambe. Sono realmente esistite?
Sì, sono personaggi documentari. Nel libro volevo che le loro due storie fossero speculari. Margherita ha una difficile situazione familiare alle spalle, è piena di rabbia, è una ragazza selvatica. Mentre Virginia è condannata a restare ai margini della società, perché figlia illegittima e malata di epilessia, e a morire in convento. Attraverso loro mi interessava ancora una volta raccontare le storie degli ultimi, degli invisibili.
- Parliamo delle differenze tra Plautilla e Marietta, la protagonista della Lunga attesa dell’angelo, il libro dedicato a Tintoretto. Le ha scoperte insieme, leggendo alcune righe su un’enciclopedia, eppure la storia di Marietta è arrivata prima di quella di Plautilla. Marietta vive all’ombra del padre Tintoretto, mentre Plautilla riesce ad emanciparsi e realizzarsi da sé.
Le ho scoperte entrambe per caso, mentre svolgevo delle ricerche sulle donne naufragate, disperse, cancellate dalla storia. Ma sono convinta di aver scritto i due libri nell’ordine giusto. A trent’anni non avrei avuto la maturità per scrivere L’architettrice, ero ancora la ragazza di Vita. All’epoca non avevo gli strumenti per capire l’importanza di un’esistenza silente come quella di Plautilla, che si fonda sull’ambivalenza, sulle cose che non possono essere dette. Mi piace pensare che i libri siano come una risonanza della nostra stessa vita. Allora mi riuscì più facile scrivere di Marietta attraverso il racconto del padre-genio Tintoretto. C’erano molti miti romantici poi riguardo alla Tintoretta, fu citata persino in un romanzo di George Sand. Su Plautilla invece trovai appena quattro righe, c’era tutta una vita da ricostruire. Ricordiamo che quando morì il padre, Giovanni Briccio, Plautilla aveva solo ventinove anni: lui ha avuto il merito di averla avviata alla carriera artistica, ma lei poi si è fatta da sé raggiungendo di fatto la fama soltanto in tarda età.
- Nel 2000 ha pubblicato Lei così amata, la storia di un’altra donna dimenticata che lei ha riportato in vita: la scrittrice e giornalista svizzera Annemarie Schwarzenbach. Un personaggio novecentesco, eppure molto moderno che non ha perso il suo fascino misterioso.
Ho scoperto dell’esistenza di Annemarie leggendo l’autobiografia di Klaus Mann, La svolta. Ero affascinata dalla storia tormentata di Klaus, scrittore di talento ma schiacciato dalla fama del padre. Mi hanno sempre attratto le storie dei figli d’arte. Cercavo Klaus, invece ho scoperto Annemarie, che poi ho ritrovato anche nel libro di Ella Maillart dedicato all’Afghanistan The Cruel Way e infine nella poesia di Rilke che, significativamente, dà il titolo al romanzo. Di Annemarie mi ha colpito soprattutto l’inquietudine esistenziale.
Mi ero ripromessa di terminare il libro entro i miei trentaquattro anni, tanti ne aveva infatti Annemarie Schwarzenbach quando morì.
- Di recente è stato riedito da Einaudi il suo primo romanzo Il bacio della Medusa, pubblicato per la prima volta da Baldini & Castoldi nel 1996. Una storia affascinante e ancora profondamente attuale, che forse si riaffaccia con ancor più vigore in questo presente. Che effetto le fa rileggere quelle pagine oggi?
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Sono molto legata a Il bacio della Medusa. È il libro che in un certo senso mi ha scoperta, che mi ha fatto capire che potevo e sapevo scrivere. L’edizione originale contava più di 1500 cartelle, era un romanzo fluviale che conteneva tutto quello che era stata la mia vita sino ai venticinque anni. C’era davvero la mia vita nel libro, macinata, mischiata, fatta a pezzi, sminuzzata in ciascuno dei protagonisti. Io ero Norma, ma ero anche Medusa, e persino la bambina Sirena. In origine i personaggi erano molto più numerosi, era una narrazione corale che poi è stata ridotta a un quartetto.
È una storia che mi è venuta in un certo senso naturale, vi era racchiuso l’intero mondo dei miei amori, compreso l’amore per la montagna, e la gioia pura di scrivere.
Per la pubblicazione di quel libro sarò sempre grata a Piero Gelli, l’editore di Baldini & Castoldi. Il romanzo nell’arco di tre anni aveva accumulato una serie di rifiuti, anche da parte delle maggiori case editrici. Lo trovavano un libro strano, atipico, poco commerciale per l’epoca. Poi è arrivato Piero Gelli e ha creduto in me e nella mia Medusa. Lui è stato, lo dico sempre, l’Uomo della Soglia, il deus ex machina della mia vita. Se non avessi pubblicato Il bacio della Medusa, ne sono certa, non avrei più scritto. Invece a quanto pare il destino aveva in serbo altro per me. Il bacio della Medusa è stato il presupposto per scrivere Vita. Sa, io credo molto negli incontri combinati dal destino, penso che ci sono persone che siamo destinati a incontrare, ad avere nelle nostre vite. Avevo incrociato Piero Gelli per caso nel 1986, quando aiutò una mia amica a pubblicare la traduzione di un romanzo serbo. Ricordo che quel giorno passavo dal Pantheon e spiai con curiosità l’editore seduto al tavolino a parlare con la mia amica. Dieci anni dopo avrebbe cambiato anche la mia, di vita. Purtroppo è morto durante il Covid, mi è spiaciuto molto, non è neppure stato possibile rivolgergli un ultimo saluto, un ringraziamento, un segno d’addio.
- Ha scritto più di dieci romanzi, tutti a ben vedere diversissimi tra loro per storia, struttura e tematiche. Non c’è mai un libro che sia uguale all’altro nell’architettura, sebbene si possa cogliere l’elemento unificatore della voce narrante: quella è la stessa. Le strutture però cambiano di continuo. Lei così amata (2000) inizia dall’epilogo, Un giorno perfetto (2005) è ambientato nell’arco delle ventiquattr’ore che precedono una tragedia, mentre Limbo (2012) alterna passato e presente in capitoli dal titolo live e homework che raccontano la rielaborazione del trauma da parte di una donna soldato. Da dove deriva questa eterogeneità costruttiva? Di solito pensa prima alla struttura del romanzo e poi alla storia?
In realtà non ci ho proprio mai pensato. Credo ci sia una sorta di “architettura organica” che cresce attorno alla struttura della storia. Ma per iniziare a scrivere ci deve sempre essere un motivo di fondo: ci sono molte storie che ho iniziato e poi abbandonato perché veniva meno il nucleo che per me sosteneva l’intera narrazione. Se si perde quella fascinazione la storia è persa, è inutile continuare.
In Limbo il motivo era la ferita che portava alla negazione del passato. In Un giorno perfetto era la vita altrui cristallizzata nell’assenza.
Basti pensare che ho iniziato a scrivere Un giorno perfetto mentre cercavo una nuova casa. A causa di uno sfratto imminente mi sono ritrovata a vedere quasi centinaia di case potenziali. Entravo in quelle abitazioni e mi sentivo come un poliziotto che indaga sulla scena del crimine. C’erano gli oggetti delle persone che vi abitavano abbandonati, esposti allo sguardo, al giudizio. Diventavo così la spettatrice delle vite degli altri. Sono state quelle case, i loro oggetti, a darmi l’ispirazione per la scrittura di un romanzo corale ambientato nella Roma contemporanea come Un giorno perfetto.
- Dal libro è stato poi tratto, nel 2008, il film omonimo di Ferzan Özpetek, con protagonista Isabella Ferrari. Cosa ne pensa dell’adattamento cinematografico, le è piaciuto?
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Non ho lavorato io alla sceneggiatura, per principio non lavoro mai alla sceneggiatura dei miei romanzi. Il film è quindi molto diverso dal libro. Il romanzo è un’opera corale, mentre la pellicola si concentra su una prospettiva più individuale. Ferzan disse che voleva lavorare più sui singoli personaggi, come del resto dimostrano i numerosi primi piani sui volti, un suo tratto distintivo di regia.
Poi decise, per esempio, di sostituire il personaggio del professore, Sasha, con una donna che è poi Mara, interpretata da Monica Guerritore. Per lui era importante che ci fosse questo confronto diretto tra Emma e Mara, una forma di affinità femminile. Nel libro tuttavia questo rapporto è assente, c’è invece Emma che cerca di affascinare Sasha in un modo scherzoso, ritrovando una sorta di libertà e spensieratezza perduta, sapendo che lui è omosessuale e quindi la schermaglia amorosa è ridotta a un gioco.
- I suoi non sono solo romanzi di genere storico-artistico, biografie di artiste e scrittrici perdute o dimenticate, ma anche narrazioni strettamente contemporanee. Ha affrontato, tramite la scrittura, i temi caldi – direi scottanti – della nostra attualità. In Sei come sei (2013) ha parlato di una bambina, Eva, figlia di due padri, mentre in Io sono con te. Storia di Brigitte (2016) di immigrazione dando voce proprio a una donna che viene nel nostro Paese dal Congo, spinta dalla necessità, e deve quindi ricostruirsi una vita.
Io sono con te è una storia vera. La scrissi nel corso della mia collaborazione con il Centro Astalli per i rifugiati. Volevo raccontare di immigrazione, ma da una prospettiva ribaltata mostrando la storia di una sola persona e non dei “migranti” come un unico agglomerato. Ho scelto Brigitte, o lei ha scelto me. Restituire l’unicità individuale della sua storia mi sembrava importante perché i lettori non restassero più indifferenti al tema. Quel libro fu un’esperienza difficile, per certi versi la definirei straziante.
Mentre scrivevo poi mi trovavo a fronteggiare le polemiche, sociali e politiche, causate dalla pubblicazione di Sei come sei.
- Sei come sei nel 2014 divenne un caso politico…
Fu soltanto, a ben vedere, un caso politico. Hanno strumentalizzato il libro per fare propaganda. Solo dopo la pubblicazione mi è stato chiaro che avevo sottovalutato la portata dell’omofobia nella società italiana, anche se già dopo Il bacio della Medusa ne avevo avuto delle avvisaglie. Le proteste non partirono dalla scuola, in cui il libro fu assegnato in lettura agli studenti, ma da un’associazione ultra cattolica. Dovetti interrompere tutte le presentazioni e Sei come sei fu ritirato dalle biblioteche. È stata quasi una censura.
Eppure i ragazzi non sono omofobi, anzi, per certi versi capiscono meglio certi temi dei loro genitori. Sa allora dove sono andata a parlare del libro? Nei centri per anziani. Loro erano interessati a discuterne e addirittura mi hanno raccontato tantissime storie nascoste, dimenticate, di gente che viveva nei loro paesi d’origine e magari è stata cacciata a causa della propria omosessualità. Riuscivo a parlare di questi argomenti con persone di più di ottant’anni, ma dall’Italia del 2014 erano concepiti come un tabù.
- La stessa forma di denuncia è ripresa, con maggiore incisività, nel suo primo libro Il bacio della Medusa. La società infligge a Norma una pena impietosa, la condanna per aver avuto una relazione con un’altra donna. La provincia la mette ai margini, la esclude. Il marito non accetta che lei non lo ami più e diventa violento, un assassino. Oggi le cose sono cambiate?
Ne Il bacio della Medusa denunciavo le condizioni delle donne nel primo Novecento, del tutto sottomesse alla società del patriarcato. Quelle che disturbavano venivano rinchiuse in manicomio e non ne uscivano più. L’idea per il personaggio di Norma mi venne proprio guardando un’immagine di queste pazienti psichiatriche: mi affascinò perché, nonostante fosse internata, sembrava una donna normalissima, persino graziosa. Però sì, mi sento di dire che le cose oggi sono cambiate. Ci sono più diritti. La situazione è senz’altro diversa.
- Nei suoi libri riprende spesso l’idea di un’immagine, una traccia o un amuleto. Spesso sono proprio quegli oggetti ritrovati a essere alla base della storia stessa, come accadde in Vita, il libro con cui vinse il premio Strega nel 2003 raccontando l’epopea di suo nonno Diamante e dei molti italiani emigrati in America a inizio Novecento. Il tema della traccia è una costante. Possiamo rivedere in questo una poetica montaliana dell’oggetto?
Amo Montale. L’ho anche citato nell’epigrafe, se non sbaglio, de La Camera di Baltus (1999). Ma penso di amarlo così tanto proprio perché la mia personale “poetica dell’oggetto” in un certo senso lo precede. Ho sempre avuto, fin da bambina, un’ossessione per le cose che venivano da lontano, e dal passato. Mi affascinavano gli oggetti abbandonati o rotti, come ad esempio la bambola senza un occhio. Ricordo che al mercato di Porta Portese amavo raccogliere quelle cartoline in bianco e nero che raffiguravano persone sconosciute, di altri tempi. Avevo una passione per le fotografie delle persone che ora non si sa più chi sono. Penso che anche noi potremmo essere così un giorno per gli altri. Ed è esattamente la stessa operazione di recupero che svolgo attraverso la scrittura, forse è il tentativo di salvare.
- L’idea che l’opera d’arte possa sopravvivere alla morte è una costante di tutti suoi romanzi. Si scrive, si dipinge perché l’opera viva più a lungo di noi. Eppure, allo stesso tempo, lei affianca a questo tema l’idea della forza corruttibile del tempo. Non sempre le operano durano, come dimostra l’affresco nella Camera di Baltus che subisce una metamorfosi continua di sgretolamento. O ancora, la Villa del Vascello costruita dall’architettrice, Plautilla Bricci, che venne devastata e infine distrutta dai francesi nel corso della guerra del 1849.
In effetti potremmo leggere la Villa del Vascello di Plautilla come una grande metafora. Senza saperlo ho scelto di raccontare proprio dell’architettrice la cui opera è andata distrutta. Chissà se c’è una qualche ragione in questo, mi piace pensare di sì, probabilmente legata alla mia passione per il tempo.
- Leggendo i suoi libri mi viene da pensare una frase poetica, che lei ha una “mente fiume” perché è capace di rompere tutti gli argini di spazio, di tempo, di categoria. Le sue storie semplicemente fluiscono e travolgono, e continuano a vivere nell’immaginario del lettore persino dopo il punto.
L’acqua è un elemento che mi affascina da sempre. Mi piace pensare che il modo in cui scrivo abbia la forma dell’acqua, dunque la capacità di assimilare sostanze e materie, e ogni cosa. E anche la liquidità - il flusso - in fondo ha a che fare col linguaggio. L’acqua non si sa da dove viene, ti travolge come pioggia scesa dal cielo, eppure scorre ovunque, sgorga come linfa dalla terra ed è legata al ciclo della vita e del rinnovamento. Forse è una concezione panteista della vita, così come della scrittura.
Spero che i miei libri mi somiglino almeno un po’.
Piazza del Popolo, Roma - 20 giugno 2022
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Melania G. Mazzucco: viaggio nelle opere di una delle maggiori scrittrici italiane contemporanee
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