Il 7 ottobre 2002 moriva a Modena il cantautore Pierangelo Bertoli, all’età di 59 anni. Un tumore ai polmoni strappò alla vita precocemente il cantastorie che nella celebre canzone A muso duro recitava
"Non so se sono stato mai un poeta / E non mi importa niente di saperlo".
Un brano manifesto che condensa il pensiero dell’autore, deciso a rimanere se stesso e cantare la propria musica, dicendo no ai diktat delle case discografiche.
A ventidue anni dalla morte, vogliamo ricordarlo proprio con questo brano, pubblicato nel 1979, riscoprendo testo, significato e analisi con l’aiuto del critico musicale Mario Bonanno, autore del saggio Rosso è il colore dell’amore. Intorno alle canzoni di Pierangelo Bertoli (Stampa alternativa, 2012).
“A muso duro”: testo della canzone di Pierangelo Bertoli
E adesso che farò non so che dire
Ho freddo come quando stavo solo
Ho sempre scritto i versi con la penna
Non ho ordini precisi di lavoro
Ho sempre odiato i porci ed i ruffiani
E quelli che rubavano un salario
I falsi che si fanno una carriera
Con certe prestazioni fuori orarioRit. Canterò le mie canzoni per la strada
Ed affronterò la vita a muso duro
Un guerriero senza patria e senza spada
Con un piede nel passato
E lo sguardo dritto e aperto nel futuroHo speso quattro secoli di vita
E fatto mille viaggi nei deserti
Perché volevo dire ciò che penso
Volevo andare avanti ad occhi aperti
Adesso dovrei fare le canzoni
Con i dosaggi esatti degli esperti
Magari poi vestirmi come un fesso
Per fare il deficiente nei concertiRit. Canterò le mie canzoni per la strada
Ed affronterò la vita a muso duro
Un guerriero senza patria e senza spada
Con un piede nel passato
E lo sguardo dritto e aperto nel futuroNon so se sono stato mai un poeta
E non mi importa niente di saperlo
Riempirò i bicchieri del mio vino
Non so com’è però vi invito a berlo
E le masturbazioni cerebrali
Le lascio a chi è maturo al punto giusto
Le mie canzoni voglio raccontarle
A chi sa masturbarsi per il gustoRit. Canterò le mie canzoni per la strada
Ed affronterò la vita a muso duro
Un guerriero senza patria e senza spada
Con un piede nel passato
E lo sguardo dritto e aperto nel futuroE non so se avrò gli amici a farmi il coro
O se avrò soltanto volti sconosciuti
Canterò le mie canzoni a tutti loro
E alla fine della strada
Potrò dire che i miei giorni li ho vissuti.
“A muso duro”: contesto, significato e analisi della canzone
di Mario Bonanno
Guidavo. Ho appreso della morte di Pierangelo Bertoli dall’autoradio. Non può essere, ho pensato. Insieme ad altre cazzate tipo fumava troppo, si stancava troppo. Come se esistessero buone ragioni per morire tanto presto. Era un ottobre tiepido, oltre il cristallo del parabrezza il sole insisteva nel suo andirivieni senza senso tra nuvolette innocue. E adesso sono vent’anni e qualcosa che Bertoli non c’è più. E Dio come passa il tempo. E Dio come invecchiamo male, e come mancano le sue strofe, a ricordarcelo a muso duro. Le sue parole necessarie, messe in fila, una dietro l’altra: spigolose, ostinate, sporche, fiere di lotta vera, di vita vera, di amore vero. Lo stato attuale delle cose, la fuga collettiva dall’ideologia, lo svilimento della politica, i diktat sempre più pervasivi di chiesa e stato, la sudditanza giornalistica, l’insipienza discografica senza fine dimostrano come Bertoli avesse ragione. Come i suoi bersagli mobili non fossero pretesti. Come ci abbia preso su tanto, se non su tutto.
L’Italia d’oro è diventata di fango. E il rosso colore dell’amore (i pugni chiusi, le bandiere al vento, l’utopia) sbiadito per sempre. L’attualità è afasica, la cifra socio-cognitiva del terzo millennio. Pierangelo Bertoli ha assistito all’inizio (avanzato) della fine ed è uscito di scena come ha vissuto, facendo a meno di inferni e paradisi, frasi fatte, dischi a perdere, patrie guerriere e ulteriori tentazioni conformiste. Coerente, fino all’ultimo. Bertoli ci ha creduto: è stato comunista, operaista, marxista-leninista e non ha mai abiurato. Nemmeno quando conveniva farlo, perché la ruota della politica gira (come le ruote della fortuna) e con essa girano le convinzioni di molti, cantautori compresi.
Recensione del libro
Rosso è il colore dell’amore
di Mario Bonanno
Lo specifico bertoliano va inquadrato dal focus dicotomico di classi sociali in conflitto. Da una parte il Capitale e i suoi emissari (“che trattano le masse come capre/ dosando e macellando l’eccedenza”), dall’altra i “normali”, i figli di cane, quelli che stanno in trincea al posto di “vescovi” e “cardinali”, per tacere di “capi di stato o generali”. Oppressi ed oppressori si contendono privilegi (gli uni) e sopravvivenza (gli altri) sui fronti divaricati del terreno sociale. Un rapporto marxianamente antitetico. Non dialettico, non risanabile: di netta frattura.
Il conflitto di classe attraversa come filo rosso (di nome e di fatto) l’intera produzione bertoliana. Il suo antimilitarismo, il suo essere contro ogni forma di repressione di stato (“arrivati da lontano poliziotti e celerini/ caricarono le donne col bastoni”), il suo essere insofferente nei confronti di un ceto politico impudico e impunito vanno assunti come affluenti di un senso di appartenenza, di un egalitarismo, perseguiti attraverso musica e parole. Insieme al progetto/sogno di un rinnovamento sociale in senso umanista e libertario.
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Pierangelo Bertoli passava per duro. In realtà era solo sincero, diretto, colloquiale, votato al giusto e al vero come nelle canzoni che cantava. Polemico, semmai, quando decideva di alzare il tiro, licenziando metafore e poesia, andando dritto al bersaglio. A muso duro resta per ciò la sua canzone manifesto, esplicitazione a chiare lettere della sua poetica antagonista, focalizzata nella fattispecie contro un’industria musicale epitome della deriva dei tempi. La canzone - e l’album omonimo - sono del 1979, il travoltismo (La febbre del sabato sera, 1978) ha preso piede e per il rambismo (Rambo, 1982) è questione di poco. L’Italia è cambiata, in peggio. E l’altro peggio è che sotto l’avvenenza di un edonismo espanso (tette-culi, leggerezza dell’essere e sciocchezzai vari) non si vede.
A muso duro, si diceva. L’attacco è dilemmatico e programmatico insieme:
E adesso che farò, non so che dire e ho freddo come quando stavo solo ho sempre scritto i versi con la penna non ordini precisi di lavoro.
Il dubbio personale (“E adesso che farò, non so che dire”) sfocia nel dubbio sul mestiere – ormai depotenziato – di cantautore. L’artista e la persona si trovano cioè a un punto di svolta: vendersi o non vendersi all’innocuo musicale che avanza? Pierangelo Bertoli opterà beninteso per la seconda opzione.
Ho sempre odiato i porci ed i ruffiani e quelli che rubavano un salario i falsi che si fanno una carriera con certe prestazioni fuori orario.
Siamo al cominciamento del j’accuse: le frecciate rivolte ad addetti ai lavori e colleghi diventano in senso lato paradigma di un sistema lavorativo corrotto, ormai mercificato: il tema ricorrente dell’intero brano.
Canterò le mie canzoni per la strada ed affronterò la vita a muso duro. Un guerriero senza patria e senza spada con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
Il refrain si declina come presa di posizione e dichiarazione di intenti insieme. Bertoli dissipa ogni incertezza sui propri convincimenti: piuttosto che (s)vendersi ai diktat discografici (facilitare-agevolare-assecondare l’ascoltatore incolto) decide di cantare per “la strada”, sinonimo di autenticità. Decide di cantare per chiunque avesse voglia di ascoltarlo, di accettarlo a schiena dritta, a viso aperto, a muso duro.
“Un guerriero senza patria e senza spada” (cioè disarmato e senza più una patria nella quale riconoscersi, compresa la patria musicale), fieramente passatista e altrettanto fiero di uno sguardo “dritto e aperto nel futuro” (cioè disposto alla battaglia, fosse anche solitaria e personale).
Ho speso quattro secoli di vita e ho fatto mille viaggi nei deserti perché volevo dire ciò che penso volevo andare avanti ad occhi aperti Adesso dovrei fare le canzoni con i dosaggi esatti degli esperti magari poi vestirmi come un fesso per fare il deficiente nei concerti
La seconda strofa accenna ai tour infiniti, altro tratto distintivo di Pierangelo Bertoli. Concerti interminabili (per tacere dei post-concerti, con Bertoli a disposizione del suo pubblico), sotto l’assedio dei deserti – ideali, valoriali, culturali, politici - sempre più ampi, della contemporaneità. Il campo della denuncia si concentra ancora sui produttori discografici che pretendono di adeguare le canzoni ai canoni richiesti dal mercato (i “dosaggi esatti degli esperti” per una canzone ormai diventata merce). Di puntare su look e deficienze alla moda per sfangarla nelle classifiche di vendita (il riferimento è alle vacue band e ai vacuissimi cantanti furoreggianti all’epoca).
Il discorso rivendicativo è ribadito in un secondo refrain che si ripete identico al precedente, e dalla terza strofa dove viene confermato l’intento di insistere sulla propria strada – artistica e soprattutto umana - fatta di denunce espresse fuori dai denti e con pragmatismo, a dispetto della concettualità elitaria di alcuni suoi collegi (“le masturbazioni cerebrali”).
Non so se sono stato mai poeta e non mi importa niente di saperlo riempirò i bicchieri del mio vino non so com’è però vi invito a berlo e le masturbazioni celebrali le lascio a chi è maturo al punto giusto le mie canzoni voglio raccontarle a chi sa masturbarsi per il gusto.
La frase “a chi sa masturbarsi per il gusto” omaggia invece il pubblico ideale bertoliano. Un pubblico genuino. Comune ma attento. Schierato. Contro-tendente come il cantautore. L’ultimo refrain rinforza ulteriormente la presa di posizione, con un passaggio aggiuntivo:
Canterò le mie canzoni per la strada ed affronterò la vita a muso duro Un guerriero senza patria e senza spada con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
E non so se avrò gli amici a farmi il coro o se avrò soltanto volti sconosciuti canterò le mie canzoni a tutti loro e alla fine della strada potrò dire che i miei giorni li ho vissuti.
Il brano-manifesto si chiude con l’esplicitazione di senso del cantare bertoliano: canzoni-impegnate, destinate a chiunque intenda ascoltarle. Rimanere se stesso e a muso duro fino in fondo, così da poter dire di avere vissuto coerentemente alle proprie idee (“e alla fine della strada/ potrò dire che i miei giorni li ho vissuti”). C’è riuscito Pierangelo Bertoli, il cantautore marxista rimasto tale fino alla fine. Fuori tempo massimo, ostinatamente a muso duro.
N.d.r. Nel video di seguito, prima di cantare A muso duro, Pierangelo Bertoli spiega l’antefatto in casa discografica che gli ispirò questa canzone:
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “A muso duro”, la canzone manifesto di Pierangelo Bertoli: testo, significato e analisi
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