Pubblicata per la prima volta nel 1958, nella raccolta “La terra impareggiabile”, Al padre è una delle poesie più famose di Salvatore Quasimodo.
Il poeta la dedicò alla memoria del padre Gaetano che era un ferroviere, in occasione del suo novantesimo compleanno. Nel ricordo dell’autore la figura paterna si intreccia al devastante terremoto di Messina. Per comprendere meglio il testo della poesia non possiamo prescindere dalla biografia di Quasimodo.
Salvatore Quasimodo, nato a Modica nell’agosto del 1901, era il figlio secondogenito di Gaetano Quasimodo (1867 – 1960) e Clotilde Ragusa (1877 – 1950). La sua famiglia paterna era originaria di Roccalumera, in provincia di Messina. Proprio a Roccalunera il poeta fu battezzato, l’11 settembre del 1901, e sempre in quella cittadina la famiglia Quasimodo trovò rifugio dopo la violenta alluvione che colpì Modica nel settembre del 1902. Tuttavia non vi rimasero a lungo: il peregrinare della famiglia Quasimodo fu costante, dal momento che il capofamiglia era un ferroviere e veniva trasferito di frequente da una stazione all’altra.
Durante l’infanzia di Quasimodo la famiglia si spostò di continuo da Roccalumera a Gela, da Acquaviva a Trabia sino ad approdare a Messina. Nel gennaio del 1909 Gaetano Quasimodo, il padre del poeta, fu promosso a capostazione ed ebbe l’incarico di riorganizzare la stazione ferroviaria di Messina che era stata rasa al suolo dal terremoto. La famiglia lo seguì e per un periodo Salvatore e suoi fratelli, Vincenzo, Ettore e la piccola Rosa, furono costretti a vivere in un carro merci ferroviario divenendo, come narra il poeta, “bestiame infantile”.
Proprio questo peculiare evento è ricordato nella poesia Al padre, in cui il poeta trasfigura la città di Messina in una sorta di rito di passaggio obbligato: la crudeltà del terremoto segna la linea di demarcazione invisibile che separa l’infanzia dall’età adulta. La figura del padre è guida esemplare in questa fase di transizione da un’età all’altra della vita, come sottolinea l’autore la pazienza del padre aveva il potere di “rubare la paura”. In un solo efficace verso, Quasimodo traduce tutto ciò che un buon padre dovrebbe fare: essere guida e sostegno, una luce nel buio dei sogni tempestosi dell’infanzia.
Scopriamone testo e analisi.
“Al padre” di Salvatore Quasimodo: testo
Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
‘Baciamu li mani’. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
“Al padre” di Salvatore Quasimodo: analisi e commento
Proprio come nella splendida Vento a Tindari, Quasimodo inizia trasfigurando la terra siciliana nel mito con il tono incipitario di un’ode classica:
Dove sull’acque viola
era Messina
Così Quasimodo trasfigura un fatto privato - l’avventura della sua famiglia nella Messina devastata dal sisma - nella dimensione del mito. L’acqua del mare di Messina è violacea in seguito ai riflessi degli incendi che seguirono, come tragica conseguenza, il terremoto del 28 dicembre 1908.
La ricostruzione del poeta tuttavia comincia nel post-terremoto, seguendo di fatto la narrazione biografica. L’autore non era presente quando la città fu rasa al suolo dalle scosse tremende del sisma, la vide soltanto dopo, ridotta ormai a un cumulo di macerie, a uno scenario apocalittico. In questi termini infatti la descrive, come una sorta di visione, conducendoci “tra fili e spezzati e macerie” dietro la figura del padre che, con il suo berretto giallo, lavora alacremente sulle ferrovie. Quest’uomo umile, che svolge un lavoro difficile e faticoso, assurge così a una dimensione eroica: è incaricato di riportare l’ordine nel mondo in subbuglio. Il capo del padre diventa la “corona con le ali d’aquila”, una sorta di stemma, un’armatura trionfante.
In quei giorni difficili, mentre i figli stanno accalcati nel vagone come “bestiame infantile”, ecco che il padre riesce a rubare loro la paura, farli sentire protetti, a farli sentire al sicuro anche dinnanzi al pericolo dei ladroni e della morte di cui si intuiva il respiro tra i cadaveri stesi, sepolti, sotto le macerie.
Infine, ecco che il passato si ricollega al presente e Salvatore Quasimodo ricollega il figura del padre a sé stesso in una sorta di passaggio di testimone, di eredità trasmessa. Ora il padre, Gaetano, si accinge a compiere novant’anni, ma Quasimodo rammenta l’eroe che è stato per lui una volta, quando da bambino tremava di paura nel buio di un vagone ferroviario nel mezzo di una città sventrata da un’apocalisse naturale. L’autore parla al padre con il linguaggio a lui familiare delle insegne ferroviarie che ha maneggiato per tutta la vita e della terra di Sicilia, dove ha vissuto per tutta la vita. Nella conclusione della poesia dedicata al padre ricorre anche un’espressione tipicamente siciliana:
“Baciamu li mani.”
Questo è l’onore che il campiere, come si chiama in Sicilia il bracciante o il custode dei campi, rende al suo padrone. Così il poeta rende omaggio al padre, utilizzando un “lessico famigliare” che lui possa comprendere. Un’unica frase che riassume e condensa l’affetto che negli anni, da ragazzo e poi da uomo, non è mai riuscito a esprimere. Tutto il riconoscimento per un uomo umile e onesto, da questi versi trasfigurato in eroe. L’ultimo verso ha un valore fortemente simbolico, racchiude in sé il senso implicito della parola “paternità” intesa nel senso profondo di trasmissione della vita e dei valori, di veicolo di futuro. Un senso che si accende di una luce nuova se contestualizzato nella catastrofe di una città distrutta dal terremoto, ma pronta a rinascere grazie all’impegno e al sudore di un uomo. Il futuro - di una città e dei suoi stessi figli - appare interamente sulle spalle di un uomo.
Così Salvatore Quasimodo elogia suo padre, il ferroviere Gaetano, colui che dimostra che:
Oscuramente forte è la vita.
L’epigrafe della raccolta La terra impareggiabile (1958), in cui è contenuta Al padre, è una citazione di Eschilo che di per sé è un elogio alla memoria:
“Dico che i morti uccidono i vivi.”
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Al padre”: la poesia di Salvatore Quasimodo per il padre Gaetano
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