La poesia Vento a Tindari comparve nella prima raccolta poetica di Salvatore Quasimodo intitolata Acque e terre (1920-1929). Si tratta di una struggente poesia che l’autore dedicò alla terra natale ormai lontana, ma immortale nel ricordo.
Tindari è infatti una località posta su un promontorio scosceso nei pressi di Messina. Quel luogo, sospeso sul mare delle isole Lipari, racchiude la memoria dell’infanzia del poeta. Rievocandone il ricordo felice Quasimodo sembra smarrirsi nel rimpianto di una vita passata, ora definitivamente perduta.
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Attraverso una lirica fortemente autobiografica, il poeta ci offre una profonda riflessione sulla condizione umana.
Forse Vento a Tindari non è una delle poesie più note del poeta ermetico, perché non si presta a testimonianza dello stile ineguagliabile di capolavori quali Ed è subito sera: è una poesia più classica, scritta in prima persona, dal tono autobiografico e memorialistico, che tuttavia ci consegna l’essenza della poetica di Quasimodo rappresentata da una malinconia inafferrabile e struggente.
Scopriamone testo e analisi.
Vento a Tindari di Salvatore Quasimodo: testo
Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’animaA te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Vento a Tindari di Salvatore Quasimodo: analisi
Sin dall’incipit del componimento Salvatore Quasimodo rievoca il luogo dell’infanzia con un’invocazione accorata: Tindari.
Nel farlo tuttavia non si serve di una descrizione esteriore del paesaggio, è da subito chiaro che Tindari non è un solo un territorio: il poeta si rivolge alla città come se fosse una persona, una madre che l’ha portato nel suo grembo. Le dedica parole intime, di puro amore, e Tindari appare in una dimensione interiore tutta penetrata nel ricordo.
Il ricordo di Tindari infatti sin dal principio assale la memoria del poeta, suscitando nella mente un’emozione intensa, travolgendo il cuore. Nella fantasticheria di Quasimodo la terra natale si trasfigura in una dimensione mitica, come si può rilevare dall’idilliaca descrizione iniziale che ricalca lo schema classico dell’ode.
Nella visione del poeta Tindari si associa al mito: è il promontorio che si affaccia sulle acque brillanti abitate dal ciclope Polifemo - secondo alcune interpretazioni (Baldi-Giusso, Ndr) è lui il Dio cui il poeta fa riferimento. Altre analisi invece individuano nella divinità citata da Quasimodo, Eolo, il dio dei venti che dà il nome all’arcipelago delle isole Eolie. Secondo la mitologia infatti le isole Lipari erano la dimora del noto Dio dei venti, oltre che la sede dell’officina di Efesto che lavorava i metalli aiutato dai ciclopi.
Capiamo che Tindari è ricreata interamente nella mente, diventa un paesaggio della memoria che è in netto contrasto con il reale stato d’animo dell’autore.
Il poeta afferma di ricordarla nel corso di un’escursione con una comitiva di amici tra le montagne del Nord Italia. Il chiacchiericcio amichevole dell’allegra brigata sembra tuttavia svanire di sottofondo quando l’Io lirico viene colpito dalla malinconia.
Il ricordo di Tindari afferra Quasimodo senza scampo, come una pugnalata al cuore. Pensa alla terra che ha abbandonato con dispiacere: il luogo dove aveva vissuto momenti sereni, un rifugio di dolcezza, che si contrappone al vuoto spirituale che ora avverte nell’età adulta.
C’è quindi il riferimento alla città di Milano, dove Quasimodo sconta una sorta di esilio penoso lontano dalla sua Sicilia. Milano viene dipinta come il luogo dell’esclusione e della perdita, dove il poeta compone una poesia segreta attraverso il ricordo che si oppone a un’esistenza amara resa attraverso la metafora “amaro pane a rompere”.
Sollecitato dal ricordo della sua terra natale il poeta si protende quindi al di fuori della rupe, come nel tentativo di un ricongiungimento estremo. Il gesto in realtà appare come una tentazione di morte, intesa come stato dell’essere in cui si dissolve ogni pena. Ma un compagno lo salva e lo riporta sulla via, redarguendolo perché si è sporto troppo.
Negli ultimi evocativi versi, che appaiono come una giustificazione, possiamo cogliere un anticipo del capolavoro Ed è subito sera:
E io fingo timore a chi non sa, che vento profondo m’ha cercato.
Finge dunque di essere intimorito, di aver avuto paura di precipitare, mentre in realtà era tentato dalla volontà di cedere al richiamo del sogno. Quel “vento profondo” cui Quasimodo allude fa riferimento alla bellezza struggente del ricordo, all’inganno della mente, cui si sarebbe voluto lietamente abbandonare.
Vento a Tindari di Salvatore Quasimodo: commento
Vento a Tindari è un capolavoro di introspezione. Con pochi, struggenti versi liberi Salvatore Quasimodo è in grado di ritrarre e rendere viva la dimensione interiore: un luogo oscuro agli altri, distaccato dalla realtà contingente, ma ben noto a noi stessi. Attraverso l’evocazione di Tindari il poeta dipinge un luogo dello spirito, forse il nocciolo più intatto della felicità che è infatti custodita nello splendore del ricordo.
Vento a Tindari di Salvatore Quasimodo: figure retoriche
- Allitterazioni frequenti le ripetizioni delle consonanti “t”; “l”; “s”; “d”.
- Enjambements scandiscono frequentemente il ritmo del componimento.
- Sinnedoche: la città di Tindari situata sul promontorio diventa emblema dell’intera Sicilia (una parte per il tutto), evocata dalla nostalgia del poeta;
- Personificazione v.1, v.31: “Tindari” (il poeta si rivolge alla città natale e le dedica le sue parole come se si trattasse di una persona);
- Metafore v. 5: “ti chini in cuore”; v.10: “onda di suoni e amore”; v. 15: “morte d’anima”; v. 20: “veste notturna”; v. 22: “sul tuo grembo”; v. 27: “ogni amore è schermo alla tristezza”; v. 30: “amaro pane a rompere”;
- Anafore vv.11-13-15: “e tu…”/ “e paure…”/ “e morte…”;
- Antitesi vv. 14-15: “rifugi di dolcezze”/”morte d’anima”;
- Sineddoche v.18: “segrete sillabe” attraverso le sillabe indica la poesia (la parte per il tutto);
- Iperbato vv. 23-24-25 “Aspro e l’esilio / e la ricerca che chiudevo in te / d’armonia oggi si muta” inversione della normale costruzione del verso;
- Sinestesia: v. 28 “tacito passo”;
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Vento a Tindari”: la poesia di Salvatore Quasimodo che è un capolavoro di introspezione
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