Non è un caso se da un po’ di tempo a questa parte molti neuroscienziati che si interrogano sul concetto di coscienza, per venirne a capo lavorano fuori dal cosiddetto “specismo”; per forza di cose questo lavoro s’intreccia non di rado con quello di biologi e zoologi. Così non è forse un caso neppure che proprio da questi ultimi e non da filosofi (o sociologi), un altro concetto passibile di più definizioni e declinazioni come quello di “cultura” susciti nuove domande. Et pour cause, direbbe il biologo statunitense Carl Safina, autore di Animali non umani. Famiglia, bellezza e pace nelle culture animali (Adelphi, 2022, Traduzione di Isabella C. Blum): siamo sicuri che gli altri animali siano solo istinto e non agiscano, vivano secondo apprendimenti propriamente culturali?
L’antropologo René Girard, più noto per il lavoro di una vita intorno al capro espiatorio, ci ha lasciato un libro imprescindibile Menzogna romantica e verità romanzesca, sulla mediazione del desiderio.
Bene, a tal proposito nel suo saggio Safina ci mostra che:
Spesso gli animali sono attratti da ciò che vedono essere attraente per gli altri: ciò che attrae un animale è quindi anche soggetto a un’influenza culturale e a un apprendimento sociale.
Questo comportamento si verifica nei pesci chiamati “molly” e anche nelle drosofile che, di fatto, sono banali moscerini.
Sulla bellezza torneremo fra poco, ma il dato importante da considerare è che animali lontanissimi da noi - ad esempio capodogli e are scarlatte, principali protagonisti del libro assieme allo scimpanzé che ci è vicinissimo geneticamente - possono avere una cultura. I capodogli comunicano con sequenze di versi, che gli scienziati chiamano “click”, e sequenze ritmiche definite “coda”: suoni che non servono solo a determinare chi e cosa possono trovarsi intorno (vista l’oscurità degli abissi in cui si muovono) ma trasmettono certi saperi, riconoscono amici e nemici, organizzano le proprie vite in famiglie e clan che escludono altri esemplari.
Dunque negli oceani tutt’altro che silenziosi, la musica dei cetacei scandisce momenti e modelli di un’organizzazione sociale strutturatissima intorno a una costellazione di processi che vanno ben oltre i geni, ma si configurano come precipitati culturali, tramandati e in evoluzione, proprio come negli umani.
Lo stesso avviene nell’esistenza delle are scarlatte – che sono pappagalli di strepitosa bellezza – o degli scimpanzé. In ciascuno di questi esemplari “l’istinto arriva solo fino a un certo punto”, scrive Safina. Si apprende sempre dagli altri e questo succede per la gran parte degli animali.
Gli scimpanzé, ad esempio, imparano a usare utensili diversi fra comunità e comunità, proprio come fanno gli uomini, ma anche le piovre, per dire. Molti animali sanno chi sono e soprattutto perché fanno quello che fanno.
Torniamo ora alla bellezza. Per il lettore italiano il più stretto riferimento è relativo alla collana Animalia edita sempre da Adelphi. L’aggancio più interessante, non a caso richiamato dallo stesso autore più volte, è alle ricerche contenute nel libro di Richard Prum, L’evoluzione della bellezza, che guarda al Darwin->https://www.sololibri.net/+-Charles-Darwin-+.html de L’origine della specie, e a una storia evolutiva basata sulla selezione sessuale, - laddove una vulgata poco filologica ha insistito per oltre un secolo su un principio utilitaristico ignaro del valore della bellezza in sé – ossia della percezione e dell’importanza data da molte specie a una dimensione estetica non necessariamente produttiva.
Le are scarlatte (una delle trecentocinquanta specie di pappagalli, Ndr) seguono mode passeggere, i loro pergolati sono “teatri della seduzione”, fanno spettacolo e, se ne hanno voglia, copulano anche quando è finita la stagione degli amori. Il tema della bellezza torna quindi prepotente: lo spreco estetico, il cosiddetto “di più improduttivo” perché non serve a un fine utile ma vale in sé, come piacere della bellezza in sé. Se le are scarlatte di Safina o i manachini descritti da Prum hanno quindi coscienza e percezione dello sfarzo e ne traggono godimento, le domande che, come specie, dovremmo porci diventano quasi inquietanti, perché ci destabilizzano. Selezione naturale e sessuale dunque, ma anche culturale.
Se l’homo oeconomicus è occupato soltanto a ridurre l’animale altro ai suoi bisogni primari, forse è ora che anche la cultura umanistica in senso lato faccia un passo ulteriore, decisivo, verso l’affrancamento dal mito che forzava l’alterità animale nella dimensione simbolica. È il momento di emanciparsi dalla convinzione filosofica – con poche eccezioni nella storia - che gli animali reagiscano solo a meri impulsi e istinti.
Naturalmente tutto questo apre a una problematica etica affatto nuova, anch’essa centrale nel dibattito attuale. Il rapporto con gli animali che non siamo noi, il destino della vita sulla terra, l’Antropocene.
Se davvero fossimo onesti, scrive Safina:
Dovremmo ammettere che cetacei, uccelli, antropomorfe etc sono perfettamente all’altezza di ciò che sono predisposti a fare. Noi, purtroppo no. A loro basta essere. Per noi, nell’isolante alienazione del nostro ritrarci dalla vita, nulla è abbastanza.
Charles Darwin, non a caso, snobbava la metafisica – forse è ora di comprendere che abbiamo più bisogno di biologi, zoologi e neuroscienziati che di filosofi.
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