

Archeologia italiana in Libia
- Autore: Federica Comes
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2024
Un titolo chilometrico, per un testo tecnico che ha preso in esame la strategia restaurativa dei beni architettonici e archeologici nella quarta sponda libica, sotto l’Amministrazione coloniale del Regno d’Italia. Archeologia italiana in Libia. Il contributo dell’esperienza archeologica “d’oltremare” nel dibattito sul restauro negli anni Trenta. Il restauro-anastilosi del teatro di Sabratha, una pubblicazione delle edizioni Il Prato, di Saonara-Padova (maggio 2024, 160 pagine), realizzata dall’architetta Federica Comes.
La professionista salernitana è anche autrice di considerevole esperienza e produttività, nonostante abbia appena doppiato la boa dei primi quarant’anni d’età. Ha conseguito la laurea in architettura a Napoli, nel 2008, la specializzazione in conservazione dei beni architettonici e del paesaggio a Genova nel 2011, un dottorato di ricerca nel 2014 e la laurea magistrale in archeologia e storia dell’arte nel 2023, in Campania. Da architetto, si occupa in prevalenza del restauro di beni ecclesiastici e archeologici. Tra il 2014 e il 2015 ha collaborato a interventi conservativi nel sito archeologico di Ercolano, poi, nei cinque anni successivi, ha progettato e diretto il restauro e manutenzione del complesso monumentale di Santa Maria delle Grazie a Milano. Successivamente, è tornata a Ercolano per dirigere attività all’interno del sito. Alla passione per l’architettura e l’archeologia affianca quella per la musica; ha studiato pianoforte, è diplomata in canto lirico e ha pubblicato due monografie sulle relazioni tra l’architettura e la musica.
Doverosa un’indicazione sul consistente corredo iconografico, riunito in un repertorio grafico e fotografico di 32 pagine in coda a questo volume. Seguono le conclusioni dell’architetta Comes e precedono le ampie note, la biblio-sitografia e l’indice delle 67 illustrazioni, piante, disegni.
È utile precisare che Sabratha è l’importante sito archeologico sulla costa della Tripolitania, a nord-est dell’attuale città libica, tra Zuara e Tripoli. Ricerche e scavi archeologici delle Sovrintendenze italiane interessarono i rilevanti resti di edifici religiosi, pubblici e dell’abitato, di origine fenicia e poi romana, ora patrimonio dell’umanità Unesco.
Spicca il teatro, in particolare, edificato in pietra arenaria a piano scoperto, non in rocce affossate. Sorge ai limiti orientali della città, con la cavea rivolta verso il mare. La realizzazione è rimasta a lungo collocata alla fine del II secolo e si è giunti a precisare sotto il regno di Commodo (180-192) o di Settimio Severo (193-211). Tuttavia, la datazione tra II e III secolo è superata da nuove ricerche, che hanno imposto una revisione delle conclusioni. Pur confermando l’attribuzione all’età commodiana del frontescena e delle decorazioni del pulpito, studi recenti considerano decisamente antecedenti la cavea e l’intero impianto. Hanno quindi suggerito di retrodatare la costruzione dell’anfiteatro all’età flavia, caratterizzata, per Sabratha, da una densa attività edilizia che avrebbe portato a importanti interventi su scala architettonica e urbana, come la ristrutturazione dei Templi di Liber Pater e di Iside.
Non trattandosi di un thriller e senza il timore di anticipare tesi ai lettori - che non possono che essere competenti - di questo saggio puntuale, tecnico e tutt’altro che prolisso, si può precisare che l’esperienza archeologica italiana in Libia si inserisce appieno nel dibattito sul restauro in quegli anni. Ci si allontanava progressivamente dall’impostazione ottocentesca, che ispirandosi a un modello ideale desunto dall’analisi storica e tipologica del manufatto puntava a riportare il monumento a uno stato di completezza che comunque potrebbe non essere mai stato raggiunto nel passato. Il nuovo secolo si apre con la consapevolezza dell’unicità della materia sopravvissuta, “essa stessa e solo essa” impareggiabile documento da custodire, lasciando inalterata la lettura. Il nuovo approccio trovò sintesi nella “Carta di Atene”, redatta dopo l’omonima conferenza del 1931, i cui principi confluirono nella “Carta del restauro italiana” (1932). Lontano dalla madrepatria, gli archeologi si sentivano liberi di operare le nuove scelte tecnico-progettuali, ricorrendo all’anastilosi: la ricomposizione del monumento con pezzi antichi originali di pertinenza del bene. Era l’unico intervento considerato possibile in campo archeologico. Si ricorreva all’inserimento di elementi nuovi sole se indispensabili per la ricomposizione strutturale dell’opera, con il minor numero di aggiunte possibile. Less is more.
Le opere furono oggetto di un vivace dibattito, tra fautori e detrattori, ma si impongono tuttora per la complessità dell’esecuzione e la ricchezza delle competenze in campo. Federica Comes è certa che costituiscano un valido precedente per le procedure e le prassi operative in un cantiere di restauro-anastilosi imponente, come quello del Teatro di Sabratha.
In quattro capitoli, l’autrice muove dall’analisi delle principali tesi di teoria del restauro, con in primo piano l’evoluzione disciplinare negli anni della Conferenza di Atene e sullo sfondo l’eredità teorico-metodologica ottocentesca. Il secondo capitolo offre una disamina dell’attività svolta dagli archeologi italiani in Libia nel contesto coloniale. Il terzo è incentrato sul Teatro di Sabratha, sulle caratteristiche architettoniche e l’anastilosi, precedute da uno studio generale dell’architettura teatrale nell’Africa Proconsolare e della sua valenza politico-simbolica. Nell’ultimo capitolo vengono esaminati i metodi d’intervento, alla luce delle teorie coeve sul restauro e di quelle attuali, di cui, in alcuni casi, si rivelano anticipatori.

Archeologia italiana in Libia. Il contributo dell'esperienza archeologica «d'oltremare» nel dibattito sul restauro negli anni Trenta. Il restauro-anastilosi del teatro di Sabratha
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