Bartleby e compagnia
- Autore: Enrique Vila-Matas
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Feltrinelli
- Anno di pubblicazione: 2012
Marcelo, il narratore di Bartleby e compagnia (Feltrinelli, 2012, tradotto per Feltrinelli da Danilo Manera) dello scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas, tra le voci più originali dell’odierno panorama letterario, è un malinconico travèt, sfortunato con le donne e penosamente gibboso. In passato ha pubblicato un romanzetto sull’impossibilità dell’amore; avvilito da un episodio invero trascurabile, ha poi rinunciato alla scrittura.
Nel luglio del 1999 Marcelo inizia a tenere un diario, o meglio un quaderno di note a piè di pagina a commento di un testo invisibile. I bartleby costituiscono l’oggetto delle sue meditazioni:
“Tutti conosciamo i bartleby: sono quegli esseri che ospitano dentro di sé una profonda negazione del mondo. Prendono il nome dallo scrivano Bartleby, l’impiegato di un racconto di Herman Melville che non è mai stato visto leggere nemmeno un giornale e che, per lunghi intervalli di tempo, se ne resta in piedi a guardare fuori dalla pallida finestra che c’è dietro un paravento, rivolto verso un muro di mattoni di Wall Street. Bartleby non beve mai birra, tè o caffè come gli altri; non è mai andato da nessuna parte, giacché abita nell’ufficio, dove trascorre persino le domeniche; non ha mai detto chi è, né da dove viene, né se ha dei familiari a questo mondo; quando gli si domanda dove è nato o gli si affida un lavoro o gli si chiede che racconti qualcosa di sé, risponde invariabilmente: “Preferirei non farlo”.”
Il tema — inquietante e seducente — di questo volume, a metà tra il saggio e il romanzo, è dunque la sindrome di Bartleby, ovvero l’attrazione per il nulla in letteratura. Il narratore s’interroga sulle cause, talvolta a dir poco balzane, dell’agrafia e del silenzio, dato che ambedue, paradossalmente, occupano un posto affatto liminare nel dominio delle lettere. Esemplare è la vicenda dello scrittore elvetico Robert Walser (1878 - 1956), singolare cantore di ciò che è minimo e fugace, nonché figura ricorrente negli scritti di Vila-Matas. Walser trascorse gli ultimi ventotto anni della sua vita in manicomio, prima a Waldau, vicino Berna, e poi a Herisau, nell’Appenzello. In manicomio l’autore de I fratelli Tanner seguitò a scrivere microgrammi su minuscoli pezzettini di carta, adoperando una grafia lillipuziana, quasi indecifrabile a occhio nudo. Presero così forma romanzi, frammenti diaristici, brevi prose, materiale ancor oggi scrupolosamente vagliato dai critici.
Per chi si occupa di letteratura, è più che lecito voler indagare le ragioni che spingono un autore a cessare di scrivere (o pubblicare) perché, chiosa Kafka, “uno scrittore che non scrive è un mostro che incita alla follia”. Scrivere — se ne abbia o meno contezza — comporta un sacrificio assai oneroso: l’esclusione dalla vita, così com’è intesa dai più. Per ogni vero scrittore, infatti, qualsivoglia esperienza si traduce istantaneamente in parole, si compenetra cioè in una forma — chiusa o aperta — antitetica alla magmatica spontaneità del reale. I predetti motivi rimandano a problemi annosi e basilari, inerenti al senso recondito della scrittura e al significato dell’esistenza (posto che ve ne sia uno). Da tale materia l’autore di questo libro saviamente si defila, essendo troppo avveduto e ironico per cercare di risolverla. Nondimeno le sue dotte divagazioni offrono non pochi spunti di riflessione e presentano al lettore una ricca messe di storie e personaggi (alcuni apocrifi ma attendibili, secondo il fortunato canone borgesiano; altri veridici: dal già citato Walser a Beckett, passando per Rulfo, Salinger, Hofmannsthal, Valery, Bazlen, Duchamp, Joubert, De Quincey e tanti altri).
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