Abbandonologa. Questo è Carmen Pellegrino, nata e cresciuta in quella terra magica del Cilento, già autrice di saggi di storia e di racconti ed ora finalista al Premio Campiello 2015 con Cade la terra (Giunti, 2015).
Un romanzo denso, corposo, sofferto e sofferente: non potremmo definire altrimenti questo primo romanzo della Pellegrino, un testo che si dà completamente al lettore, gli si concede, inebriandolo con una scrittura poetica, inusuale forse, quasi vintage, dal sapore sicuramente antico.
La storia di Estella e dei suoi morti, riuniti attorno alla tavola della vita abbandonata, ha appassionato non solo il grande pubblico di lettori, ma ha ammaliato anche la giuria del Campiello, che l’ha selezionata fra i cinque finalisti.
Ma che cos’è realmente Cade la terra? Cosa rappresenta per l’autrice? E chi è davvero Carmen Pellegrino?
In attesa della finale del Premio Campiello, prevista per il prossimo 12 settembre, abbiamo dialogato con l’autrice di questo romanzo così magico, così misterioso, così audace.
- Carmen Pellegrino, scrittrice e soprattutto abbandonologa, ti occupi, in sostanza, di quella che è divenuta ora una vera e propria scienza poetica grazie a te, l’abbandonologia, appunto. Si può dire che hai portato proprio l’abbandonologia alla finale del Premio Campiello 2015 col tuo primo romanzo Cade la terra: cosa significa essere abbandonologi? In che modo si riesce ad intercettare l’anima dei luoghi, proprio nei luoghi stessi della dimenticanza?
Nel mio caso, significa ridurre il più possibile lo scarto fra le parole e le cose, e le cose sono quelle dimenticate, lasciate indietro, come a perdersi. È un esercizio continuo di sguardo, è la scelta della lentezza, la possibilità di misurarsi con un tempo diverso, il tempo delle cose, che non è meno importante del tempo degli uomini. L’anima dei luoghi vado a cercarla nelle pietre, nella polvere; cerco le tracce della durata, quella sensazione che sempre ha a che fare con la vita.
- Nel tuo romanzo sono molte le figure femminili che vengono a galla. Sono donne che sognano un futuro diverso, ma allo stesso tempo sono donne concrete, di spiccata sensibilità eppure così coriacee. Diventiamo, noi lettori, spettatori di una maternità oscura, una maternità che pesa sulle spalle di queste donne in bilico sulla terra che frana.
C’è un personaggio a cui ti senti più legata? E se sì, perché?
Irrimediabilmente a Estella che di tutti quei segreti vissuti è la guardiana. Lei che non ha un attaccamento materno a nulla, finisce per prendersi cura di ogni storia, di ogni cosa, specialmente delle pietre, perché è convinta che se non è possibile cavare sangue dalle rape si può avere più fortuna con le pietre: si può trarne pietà, una parola per volta. Tuttavia, nessuna indulgenza con lei: in fondo, è una cantastorie, o meglio una contastorie.
- Cos’è per Carmen Pellegrino il ricordo? Che valore ha per te il passato e quanto influisce sul tuo presente?
La memoria è per me il luogo della comunione con i morti, i miei e quelli degli altri. Non credo sia possibile alcun futuro senza una salda consapevolezza del passato da cui si proviene. Verso quel passato, dice Paul Ricoeur, ciascuno di noi ha un debito: il minimo che possiamo fare è ricordare.
- “Va bene, va bene: ne ho bisogno io, ho bisogno che tornino. Ma aggiungo: anche loro hanno bisogno di tornare, proprio in questa casa. Nessuno ha mai veramente voluto andarsene”. In una continua lotta tra la vita e la morte, in un tira e molla che seduce, inganna e alla fine lacera, Estella non accetta il distacco, vorrebbe riportare alla luce del sole anche coloro che sono stati inghiottiti dalla terra. Sappiamo che nel tempo libero partecipi a funerali di sconosciuti: da cosa nasce questa esigenza? E che cos’è la morte per Estella? E per Carmen?
Per Estella la morte è un confine che non esiste, nel senso che lo oltrepassa senza rendersene conto, non riconosce i morti, non riconosce i vivi. È una soglia, simile tanto alla bolla di un sogno. Per quanto riguarda me, credo all’accoglimento dei segni, che possono giungere inaspettatamente, da un albero che freme, dall’acqua che scorre... Quelli che sono morti, diceva Birago Diop, non sono morti.
- Cade la terra è un romanzo che scava a fondo, un romanzo importante e ricco. Forse proprio per questo è riuscito ad arrivare tra i cinque libri finalisti del Campiello. In attesa della finale prevista per il 12 settembre, ti chiedo: ti saresti mai aspettata un risultato simile con questo romanzo d’esordio? Quanto è stato impegnativo (ed azzardo anche a dire doloroso) scriverlo?
No, non potevo aspettarmelo. Sapevo di aver scritto un romanzo difficile, vuoi per forma, che non ho voluto ‘normalizzare’; vuoi per tema: abbandono e morti seduti intorno a un tavolo! Insomma, c’era poco da stare allegri. Ho corso un bel rischio, ma alla fine è andata bene.
È stato impegnativo scriverlo come credo lo sia sempre la scrittura, cosa di cui posso fare a meno, benché sia l’unica cosa che vorrei fare. Non lo stesso per la lettura, senza leggere non riuscirei a stare.
- C’è un luogo abbandonato, tra tutti quelli che hai visitato e studiato, che ti è rimasto nel cuore? Se sì, quale e perché?
Certo, Roscigno Vecchia, il borgo cilentano abbandonato progressivamente dal principio del ‘900, di cui Alento è la trasfigurazione. E Monterano, nel Lazio, le cui case, persino la chiesa, non hanno più i tetti, né le finestre, e così assomigliano a tante teste scapigliate. Non c’è una ragione particolare. Ma poi, a pensarci bene, sono legata a ogni borgo che ho visitato, perché ogni volta vi ho trovato una dimora, un posto in cui stare, anche solo per un poco.
- Chiudiamo con una domanda forse d’obbligo, perché credo che siano molti i lettori che vorrebbero leggere un altro tuo romanzo. Puoi anticiparci qualche novità? Sei già a lavoro per il prossimo libro?
Lavoro da tempo a una cartografia dell’abbandono, ma al mio modo, più sul filo della parola che dell’itinerario. E ho cominciato un nuovo romanzo: c’è dell’abbandono, anche in questo caso, e c’è un fiume.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Campiello 2015: in attesa della finale, un dialogo con Carmen Pellegrino
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