Caporetto andata e ritorno
- Autore: Paolo Paci
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Corbaccio
- Anno di pubblicazione: 2017
Dedicato al nonno Giuseppe, combattente siciliano nella Grande Guerra, religiosissimo, che nonostante le sue incessanti preghiere o forse proprio per quelle, tornò per una ferita dalla linea del Piave. È “Caporetto andata e ritorno”, un libro di storia, geografia, viaggi, cultura, memoria e curiosità, pubblicato da Corbaccio a maggio 2017 (pp. 288, euro 19,60), a firma del milanese Paolo Paci, giornalista e scrittore, alpinista e viaggiatore.
Andata: la marcia irresistibile degli austro-tedeschi, dopo lo sfondamento del 24 ottobre, per oltre un centinaio di chilometri, dall’Isonzo alla linea di resistenza italiana sul Piave. Dal confine sloveno, quindi, alla pianura veneta.
Ritorno: l’itinerario inverso, coperto un anno dopo dai nostri, insieme a qualche reparto inglese e francese, dal fiume sacro al territorio da riprendere e quello da conquistare oltre il vecchio confine, avanzando il più lontano possibile, prima dello stop imposto dall’armistizio imminente. L’offensiva italiana scattò esattamente un anno dopo la rotta di Caporetto, il 24 ottobre 1918, sul Monte Grappa. Si estese poi alla pianura attraversata e dal 28 dilagò verso l’obiettivo indicato dal piano d’attacco: l’abitato di Vittorio Veneto, proseguendo anche oltre.
In mezzo, tra l’avant e indre’, un anno interminabile di occupazione nemica, di sudditanza al “tedesco” come allora chiamavano gli austriaci, generalizzando. E di fame, malattie, privazioni, appesantite dagli avversari, in debito loro per primi di risorse logistiche e alimentari e impegnati a depredare scientificamente gli sventurati abitanti italiani non sfollati, rimasti in zona.
È lo stesso Paolo Paci a spiegare il perché e il come del suo viaggio, compiuto nell’estate 2016, dai territori un tempo asburgici della Val Canale e alta valle Isonzo fino al Piave e al Grappa. Difficile orientarsi sulla cartina politica attuale, i confini non corrispondono a quelli di un secolo fa: nuove province, regioni autonome, laddove si estendeva l’impero austroungarico e uno Stato inedito, la Slovenia, per non dire della Croazia sul mare.
Lo scopo? Scoprire come viene vissuta oggi la memoria della prima guerra mondiale, da popolazioni che furono sui fronti opposti.
“Vedere cos’è rimasto, sul terreno e nelle coscienze, del conflitto che ridisegnò l’Europa. E verificare quanto la Grande Guerra, che sembra così remota, faccia ancora parte del nostro modo di essere”.
In avvio del testo, si sofferma su tre canzoni molto popolari cento anni fa tra i combattenti. Una è la più famosa, La leggenda del Piave, composta da un barbiere, poeta, postelegrafonico, il napoletano Giovanni Ermete Gaeta, che si firmava E.A. Mario. All’epoca commosse tutti:
“il Piave mormorava dolce e placido al passaggio dei primi fanti, il ventiquattro maggio: l’esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera”.
Chi non la conosce? Eppure, Gaeta non ricavò quasi nulla: la SIAE non gli riconobbe i diritti d’autore nel 1923, considerando ingiustamente il testo come un inno nazionale, di proprietà dello Stato.
Aveva scritto quelle strofe col cuore, nel giugno 1918, nei giorni della resistenza sul Piave alla nuova offensiva austriaca. Un amico cantante diffuse il canto tra i bersaglieri e divenne subito popolare. Il capo di stato maggiore, Diaz, si felicitò con l’autore compaesano, dicendo che la canzone valeva al fronte più di un generale.
Un tema, quello di Gaeta, che torna nel finale del volume, quando l’itinerario dello scrittore milanese fa sosta a Sernaglia, sull’Isola dei Morti.
“Si vide il Piave rigonfiar le sponde e come i fanti combatteron l’onde. Rosso di sangue del nemico altero, il Piave comandò: Indietro va’, straniero!”
versi che descrivono esattamente quanto accadde sull’isolotto, in mezzo al Piave, il 27 ottobre 1918, quando il 22° Corpo d’Armata forzò l’attraversamento. Alle 23:30, nove reparti di arditi della divisione d’assalto del generale Zoppi gettarono le zattere sul fiume in piena. Furono i primi italiani a rimettere piede sul suolo occupato.
La battaglia di Sernaglia infuriò in modo cruento fino al 29 ottobre. Il fuoco nemico, colpi corti dell’artiglieria italiana e il fiume in piena pretesero un prezzo pesante. Nei giorni seguenti, vennero raccolti a centinaia i corpi dei nostri, che si arenavano sulle sabbie al centro del Piave. Fino ad allora era stata chiamata Isola Verde. Cambiò nome.
Una cosa segna per intero il libro di Paolo Paci: il sincero rispetto per i tanti che dettero la vita. Dopo cento anni, la retorica si è spenta, le parole altisonanti ma vuote dei conferenzieri non coprono più l’ultima voce di quei ragazzi, gli eroi come i pavidi, quelli pur spaventati che trovarono la spinta di un coraggio insospettabile e quelli ubriachi di paura che cedettero al panico. Non un ruggito di vittoria, non Savoia, Patria, Italia. Ma un lamento.
Il protagonista è il caduto, che anche s’era nemico, una volta morto smette di esserlo.
“Indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento. E la Vittoria sciolse le ali al vento!... Sicure l’Alpi, libere le sponde e tacque il Piave: si placaron le onde,
la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!”.
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Bravo Paolo. Ho addentato il tuo libro e non l’ho mollato fino a quando non l’ho terminato. Ho avuto l’impressione di camminare con te, una passeggiata molto lunga, adagio, in montagna logicamente, tragicamente, a tratti affascinante. Basta. Mi è piaciuto. Bravo
tuo Carlo