Scipione (Macerata, 1904 - Arco, 1933), pseudonimo di Gino Bonichi, fu uno dei più importanti esponenti dell’espressionismo pittorico della Scuola Romana
La vena fantastica e visionaria dei suoi quadri si esprimeva soprattutto in alcune nature morte e in molte vedute di Roma, barocche e decadenti, dipinte con tratti nervosi e allucinati, i cui colori scuri evidenziavano il senso di oppressione provocatogli dalla tubercolosi, che lo uccise a 29 anni.
Oltreché pittore, Scipione fu anche disegnatore, critico d’arte e poeta. Suoi versi, con il titolo “Carte Segrete”, furono pubblicati per la prima volta da Vallecchi nel 1943. In seguito Einaudi li raccolse in volume nel 1982, con prefazione di Amelia Rosselli, insieme a brani di diario, prose, lettere e frammenti sparsi in varie riviste e in libri difficilmente reperibili.
In uno stile semplicissimo, lontano da qualsiasi barocchismo o pomposità dannunziana, così come dalla tonalità franta del primo Ungaretti, Scipione rendeva animato il paesaggio campestre, attribuendogli sentimenti e movimenti umani, in un’atmosfera panica di turbamento e mistero.
La poesia di apertura, Estate, appare scabra e severa, carica di immagini naturali (terra, sole, stelle, lucertole, grilli…), quasi visionariamente abbacinate, e patite con un’empatia fraterna e impietosita:
“La terra è secca, ha sete / e si spacca. / Sui labbri dei crepacci / le lucertole arroventate / corrono in fiamme. // … La terra è secca, ha sete / e la notte è nera e perversa. / Cristo, dalle da bere, / ché vuol peccare / e farsi perdonare”.
Ci sono tanti colori, in queste dieci poesie di Scipione, che evidentemente non si dimenticava di essere soprattutto un pittore: non solo i rosso-scuro e i neri dei suoi paesaggi romani, ma anche i gialli e gli ocra della terra bruciata dalla canicola, il verde dei campi, il blu di notti stellate. E c’è movimento, di carne umana e di sussulti animali, in una fisicità totale, poco innocente, gravata come da una colpa:
“Mise le mani per terra ed era simile / ad una bestia. / La terra ha tutti i nascondigli, / gli scarabei ronzano nell’aria. / La testa alla radice dei capelli brucia, / le spalle si aprono, le viscere si commuovono”.
Aveva ragione Amelia Rosselli quando scriveva dell’intensa religiosità percepibile in questi versi, nutrita forse di letture bibliche, e soprattutto dell’Apocalisse. Ma le divinità che governano il mondo allucinato di Scipione sembrano del tutto paganeggianti, faunesche, riecheggiando semmai le metamorfosi ovidiane, come in questa bellissima composizione:
“Io sono la voce dell’albero che cade, / la mia corteccia sarà accarezzata / quando si vedrà che dentro sono bianco. / Le mie radici sono d’avorio e sono / nascoste ‒ la terra fine le ricopre. / Il mio corpo è rotondo, / l’aria sola mi toccava. / Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami, / i loro occhi vedevano tutte le mie braccia, / le foglie li nascondevano. / Sotto di me l’uomo si è riposato. / Io sono la voce del fanciullo, / le mie ossa sono tenere e possono cadere / e non si romperanno. / Le mie gambe corrono, i miei piedi / non lasciano impronta. / Il timbro della mia voce somiglia / alla campana del mattino, / al bronzo leggero”.
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