Che non sia vero niente
- Autore: Domenico Di Marzio
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2013
Che non sia vero niente (Nuvole di Ardesia, 2013) di Domenico Di Marzio è un romanzo che salta all’occhio per la sua impossibilità di definizione e soprattutto per la mescolanza di fattori che ne attraversano le intercapedini, rendendolo un mix di irresistibile stile e intreccio. Un giallo che, come di dovere, si presenta all’occhio del lettore, con una morte in bella mostra, quella di una donna, appariscente ed in carriera, con un marito professore universitario e due figlie, alla cui vita, pare, non manchi assolutamente nulla. Perché la bella signora, intensa nella seduzione delle sue curve ingannevoli, non si lascia sfuggire la possibilità di avere più di un amante ed è proprio con la misteriosa e oltremodo intricata versione romanzata della sua vita, che la storia parte.
Ho osservato spesso la copertina mentre leggevo. E più la guardavo più mi veniva in mente, lei, Luisa. Il suo corpo seducente, i suoi capelli e quei rami di un tronco ovattato ed esposto, capace di ricordare gli anfratti più nascosti della sua carne, terrore e meraviglia dei suoi amanti. Luisa, bugiarda e ninfomane, colei che morendo, lascia un quadro irrisolto sporco di sangue e di inganno. La stessa donna che intesse legami inimmaginabili, che non fa differenza tra uomo e donna nelle sue relazioni sessuali, che si piega con piacere e sottomissione all’immaginazione fervente dell’autore. Luisa è la protagonista che non lo è. E’ colei che ha la morte negli occhi, il rosso del sangue sui vestiti e aspetta, al portone dell’oltre, un riscatto che non arriverà mai.
Il primo sospettato è il marito Andrea, un uomo che appare solo per qualche minuto narrativo, che poi va via e ritorna, ogni tanto, solo per ricordarci che le pedine di questa scacchiera sono tante, forse troppe eppure egregiamente incastonate. Un fluido che scorre, fatto di amici e nemici, si concentra intorno alla morte dell’amata, di colei che ha distrutto vite e ha intessuto trappole, colei che porta tutti, compreso noi che leggiamo e l’autore che scrive, davanti ad un bivio, senza darci nemmeno un saluto. Amici che condizionano e si condizionano tra loro, che avvolgono le loro vite attorno ad un unico palo: un omicidio che sconvolge la vita di tutti e che nessuno, almeno apparentemente, riesce e può spiegarsi.
Maurizio l’avvocato, con la moglie Adriana ed un figlio assai legato a lei, costruiscono l’apparente famiglia normale che in quella storia, forse, non dovrebbe entrarci se non per riflesso. Lo stesso Fabio, l’ingegnere che nasconde più segreti di tutti e vive isolato e solitario sfuggendo al caos e rifugiandosi in altre parti del mondo, promettendo la sua presenza solo laddove essa è richiesta. Poi c’è Carlo, l’unico personaggio che parla in prima persona. E’ attraverso il suo occhio indagatore, analizzatore, a tratti distaccato ma in altri fin troppo infuocato e provato, che conosciamo buona parte della storia.
La narrazione avviene attraverso l’uso della prima persona che si alterna con l’uso della terza, che tutto vede e tutto può. Gli amici sono stati sempre indivisibili, un patto li ha legati come ha legato le loro donne e le loro famiglie fino al punto di saldare un vincolo corposo ed invidiabile a prova anche della più terribile delle minacce: la morte. Ognuno di essi è un libro aperto. L’autore descrive ogni personaggio nei minimi dettagli, con un attenzione morbosa all’introspezione psicologica che va ad affondare come una lama in quegli angoli nascosti del cervello e dell’anima dove cova la malattia, la perversione, l’indolenza e la sofferenza che spacca ogni legge di moralità e logica. Ciascuno di essi è una tempesta, una tormenta, un groviglio di passioni, di bugie, di introversioni, di follie che non trovano pace ma che al contrario esplodono davanti ad un fatto che irrimediabilmente rompe qualsiasi tipo di equilibrio. L’autore ce li ha tutti nel sangue, li sente scorrere nelle vene e li ascolta, perché le loro voci sono tante ed indistinte, seppur estremamente forti e dopotutto, con un po’ di pazienza, perfettamente distinguibili. Le loro facce sono dolore e piacere, sono grida e sesso, parole e inchini, sospiri e maledizioni.
Mentre leggevo ho visto un mondo girare e tanti piccoli mondi che gli si attaccavano addosso, urlanti e possenti, scuri e colorati, mondi di perversione e malvagità, di scelte sconosciute e sbagliate, di minacce e di paure irrisolte. Attrazioni sessuali strane e distorte, di qualsiasi genere e fattura, tra donne, tra madre e figlio, tra padre e figlia, ma che non sia vero niente?
E’ questa la domanda di Carlo, uno dei tanti, l’unico che racconta in prima persona, ma la sua voce è quella di tutti, la sua visione è quella globale di una realtà che si spezza proprio laddove si sta cercando di ricomporla. Ed è questa la bellezza di questo romanzo. Che non è bello nel modo tradizionale ma è bello perché è spezzato. La sua visione è contraddittoria nella misura in cui non dà alcuna visione univoca e perfetta. Per chi si aspetta e gode di un finale dichiarato e esemplificato, non rimarrà soddisfatto da questa storia che dice tante cose e le dice tutte insieme, che come l’albero sulla copertina, ti porta davanti a tante strade e te le fa percorrere tutte, senza neanche che te ne accorgi e poi quando arrivi alla fine, ti rendi conto che una fine non esiste. Tutto quello a cui assisterete forse vi sconvolgerà e vi farà stare in pena, probabilmente vi turberà, vi scombussolerà, vi attanaglierà perché in un mondo come questo del libro, ti viene voglia di entrarci per forza, necessariamente, anche solo per sbirciare, per guardare, per sapere dove quella follia intensa e a tratti raccapricciante può arrivare. Ma niente è come sembra, l’autore architetta tutto per tenervi sulle spine e quanto ci riesce bene, non potete immaginarlo, fino a quando non lo leggerete.
La sua capacità descrittiva e vivida racchiude un’esposizione di Roma, luogo in cui è ambientato il romanzo, che lascia a bocca aperta. I rumori, gli odori, i sapori di questa città che affoga nel caldo e nell’umido dei giorni di agosto, immettono sulla pelle una sensazione chiara di partecipazione e di turbamento reale ed avvolgente. Una città sudata, sofferente, che sembra piangere quella morte dalla quale rinascono decine di storie, come belve affamate che si nutrono di quel sangue, insaziabili e dannate. Non c’è aria nell’aria, il senso di colpa attanaglia i luoghi come le coscienze, spegnendo i respiri, contorcendo le confessioni, inabissando i buoni propositi.
Un gioco attraente ed illusorio nel quale tutti giocano ad armi pari perché tutti sono sospettati e tutti hanno la possibilità di discolparsi. Davanti agli occhi seri e scrutatori, neri e profondi, del commissario Loredana Esposito, che sfugge da un passato impietoso e drammatico, nessuno si salva vivo. Per lei tutti possono essere portatori di inganni e misfatti, tutti possono aver architettato quella morte così violenta e così improbabile. Una morte che non è giusta perché non sta al posto giusto nel momento giusto. Anche lei, napoletana verace, spedita a Roma, desiderosa di misurarsi con un caso di omicidio così strambo ed inquinato, deve affrontare demoni che arrivano silenziosi e sinistri da ogni dove, senza alcun preavviso. La sua, è voglia di lottare, di emergere, di sacrificare tutto in nome della verità, un proposito onorevole e degno del suo ruolo, nel quale la appoggia, ma non del tutto, il commissario Sante Speziale, un altro redivivo che dall’inferno ci è arrivato direttamente piangendo.
I personaggi di Domenico Di Marzio hanno tutti il volto bruciato dalle fiamme, quelle personali, intime, degradanti e meschine, che spesso si fa fatica a nascondere. Sono tutti fantasmi di antichi rimorsi e ottenebranti rimpianti che li rendono le pedine perfette per una storia che non ha redenzione. Uomini e donne che inseguono ombre, macchinano solitudini, respirano polvere e si sporcano di fango eppure strisciano e si trascinano, ingoiando fino a rischiare di strozzarsi.
L’autore non nasconde il suo amore per il cinema, puntellando la trama di citazioni cinematografiche e creando un universo femminile che si distacca come una luce di diamante da quello debole e barcollante dell’altro sesso. Donne bellissime, bionde o more, alte e sinuose, fuga dalla realtà e dolce sollievo per i sogni d’altrove. Su di esse aleggia l’ala protettiva di chi le ha create, la sua mente frenetica e altisonante che le vede come ragguardevoli messaggere di vita e di morte. Donne inusitate, traditrici e sconclusionate, irrimediabilmente puttane, amanti del sesso e del terrore, inseguitrici di incubi e di perverse allusioni, dispensano notti di passione e di sfogo come se fossero sangue e fame dei loro ignari compagni. Su di esse troneggia Melissa, moglie di Carlo, colei dalla quale tutto passa. E’ attraverso di lei, figura indecente perché spaventosamente bella, una magica sirena buia, che per volontà o per disdetta, tutti passano, immergendosi in un mare di proibito e di fascino e riemergendo nel silenzio. Melissa che non conosce tregua e non conosce misura, che ama Carlo e amava Luisa, che è forte e tragica, beffeggia e comanda, rappresentando in modo meraviglioso la chiave di lettura di ogni figura: l’impenetrabilità delle tenebre dell’anima.
Ambiguità e sospensione, delitto e castigo, amore e perversione, abilità e misura di un autore che crea un intrigo terribile perché irresistibile. Crea storie nelle storie collegandole magistralmente e permettendo al lettore di scoprire lentamente legami impensabili. Legami agghiaccianti, intensi misteri che rendono febbrile l’atmosfera fino a farti sentire la gola secca.
Può capitare di sentirsi persi, leggendo, di non essere pronti, di avvertire un senso di spaesamento di fronte a tanto ardore, possessione, insolenza e ribellione. Mille volti popolano questo romanzo che sembra davvero troppo piccolo e fragile per contenerli tutti. Sembra ad un certo punto scoppiare, perché infinite sono le strade, infiniti i modi con cui l’autore ti sorride, con quel mezzo sorriso che ti porterà di fronte al bivio.
Il finale di questa storia non è un finale. E’ il vuoto, è il nero, è l’inarrivabile stato di ciò che non può essere toccato, afferrato, fatto proprio e finalmente messo da parte. No, l’autore non ci sta. Non ci dà un finale normale. Lui un finale non ce lo dà proprio.
La storia inghiottisce, ti prende e ti sommerge. Un buco nero di follia e ansia, di brivido ed energia, quell’energia pura che ti attraversa e che non ti lascia più andare. Un’energia che l’autore è capace di farti sentire fino alla fine, fino a quando decidi di buttarti dal burrone, insieme a tutti gli altri, insieme a quelli che sono diventati i compagni di un viaggio al limite del condizionato. Un viaggio, forse nel peggiore dei mondi, in quello più angusto e ferito, sporco e viziato, paradossalmente vero e odiato. Un viaggio che ti ha avvolto, come una camicia di forza anche quando volevi scappare, anche quando potevi non ascoltare, anche quando sapevi che non ci dovevi stare. Un viaggio che qualcuno direbbe sbagliato, che forse non tutti capiranno, al limite dell’ammissibile.
Un finale tradizionale significa permettere al lettore di possedere quella storia, vederla finalmente realizzata, conoscere l’inizio e la fine e sciogliere ogni ragionevole dubbio di fronte all’ammessa verità. A noi, questa soddisfazione, Domenico Di Marzio, non vuole darla e il suo finale è da scena. Scena sospesa e non detta, del tutto. Qualcosa lo intuiamo e io molto ho capito. Ho capito tutto ma vorrei non averlo fatto, perché, lo ammetto, del finale, non mi interessa poi così tanto. Io da quel burrone mi ci butto, perché solo così, nel vuoto e nel silenzio, nell’umido e nello scivoloso, stretto e pericoloso, posso ancora avere addosso la sensazione che tutto sia sospeso, incastrato, irresistibilmente contrario, indurito e spassionatamente morbido, così come l’ha creato l’autore e ogni suo dannato personaggio.
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