Se c’è una poesia che parla di autunno, che dell’autunno ha i colori, le sfumature e la sottile malinconia, è sicuramente Città vecchia, una delle liriche più belle e appassionate di Umberto Saba.
È una poesia intima come una preghiera, un canto sommesso delle cose semplici e, al contempo, un ritratto malinconico, in chiaroscuro, di una sera come tante in cui si specchia nelle pozzanghere il “giallo dei fanali”.
Città vecchia fu inserita nella prima edizione del Canzoniere, quella del 1921, nella sezione dedicata alla città di Trieste dal titolo Trieste e una donna (1910-1912) e fu infine mantenuta nell’edizione definitiva dell’opera, stampata nel 1962.
Umberto Saba descrive una sua passeggiata quotidiana per le vie oscure della parte più antica della città, in cui gli sembra di trovare “l’infinito” grazie al contatto con la gente umile e indaffarata che vi abita.
Scopriamo testo, analisi e commento di Città vecchia.
“Città vecchia” di Umberto Saba: testo
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
“Città vecchia” di Umberto Saba: analisi e commento
Saba ci introduce nel sentimento che vuole ispirarci attraverso la poesia utilizzando una strategia descrittiva. Il lettore vede dischiudersi dinnanzi ai suoi occhi questa “oscura via di Città vecchia”; capiamo che ha piovuto da poco perché nelle strade ci sono larghe pozzanghere in cui si specchiano i gialli fanali delle automobili di passaggio. È un’atmosfera stranamente intima, perché il poeta sembra condurci ad avanzare con lui in questa “via oscura”, popolata da sconosciuti che tuttavia lui ha imparato a conoscere bene. La strada è affollata, dice, come un porto di mare: tramite una efficace similitudine ci dà l’idea della confusione, delle voci che gridano, dello smarrimento. Gli uomini sono paragonati alle merci, diventano addirittura il “detrito”; ma è proprio qui, dove l’umanità non è uguale a nient’altro che a sé stessa che il poeta sente di toccare con mano l’infinito.
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Scendendo negli Inferi di questa Città vecchia Saba sembra compiere un processo di purificazione spirituale, come si evince dal finale in cui afferma che il suo pensiero si purifica proprio laddove la strada è più indecente, immonda, lontana dall’ordine e dalle rigide traiettorie della società borghese.
Saba ci introduce una a una tutte queste “creature” che popolano il lato non visto della città, le chiama “creature” e non “persone” proprio per sottolineare il loro essere “figli di Dio”. Ci sono nell’ordine: la prostituta, il marinaio, la donna che litiga e bercia, il soldato (“dragone” è il termine che indica il soldato a cavallo, Ndr) seduto alla bottega del friggitore, la giovane gelosa che impazzisce per una pena d’amore.
La poesia di Saba è intessuta di rime che tendono a collegare il registro basso con il registro alto (si pensi a “lupanare/mare”; oppure a “signore/friggitore”), ma è nel finale che avviene il vero coup de théâtre quando il poeta intreccia, in una lunga assonanza, in un concatenamento di rime baciate, “dolore/Signore/amore” come se volesse riprodurre, attraverso le parole, una catena di solidarietà e fratellanza.
Ed ecco che succede, nell’ultima strofa le parole lacerano la pagina e giungono dentro di noi, ci commuovono con la verità pura delle cose fragili. Sentiamo anche noi nel cuore l’Infinito che ha toccato Saba in quell’oscura via di città vecchia e avvertiamo un sentimento palpitante di fratellanza con il resto dell’umanità.
Utilizzando uno schema di rime semplici che sono le sue predilette, come la rima fiore/amore da lui definita “la più antica difficile del mondo”, Umberto Saba ci fa scoprire la sua verità obliata, che giace al fondo e che all’improvviso il “cuore riscopre amica” (come recita in Amai), permettendoci di toccare con mano la vita nella sua espressione più pura e autentica.
Città vecchia, da Saba a De André
La lirica è piana come un canto e si impara facilmente a memoria, non a caso ha ispirato anche una celebre canzone di Fabrizio De André, La città vecchia (1966), contenuta nell’album Delitto di paese, solo che il cantautore cantava Genova, mentre la poesia di Saba è inestricabilmente legata alla sua Trieste, città-rifugio della vita pensosa e schiva del poeta.
Un’altra differenza sottile scorre tra la canzone e la poesia: Saba, nella conclusione, scopre che Dio si agita in tutte le creature; mentre De André canta ugualmente di creature della vita e del dolore, ma non redente dallo sguardo di Dio, come ci spiega l’introduzione ispirata a un verso di Jacques Prévert “Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” e nel finale sottolinea, come chiudendo un cerchio: “se non sono gigli, sono pur sempre figli, vittime di questo mondo”.
Se tu penserai, se giudicherai, da buon borghese,
li condannerai a cinquemila anni più le spese,
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo,
se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo.
In ogni caso, il sentimento dominante, in questi versi, non è la conversione religiosa o la redenzione dei peccati, ma la pietà ispirata dalla visione dell’umanità più nuda e indifesa dinnanzi agli assalti della vita.
Entrambi, il poeta cattolico e il cantautore ateo, tengono fede alla principale trama di Città vecchia, ovvero che il dolore è parte primigenia e fondante dell’esistenza.
Lo sguardo si posa ai limiti, ai margini, ed è proprio lì, sull’orlo dell’abisso e della vertigine dove la maggior parte della gente non osa spingersi o guardare, che si tocca l’essenza profonda della vita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Città vecchia” di Umberto Saba: la poesia della vita e del dolore
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