Il mare è un tema ricorrente nella poesia di Umberto Saba, si fa metafora del viaggio di Ulisse, l’eroe omerico nel quale l’autore si riconosceva e rifletteva sin dalla giovinezza trascorsa navigando lungo le “coste dalmate”. Nel moto indomabile delle onde il poeta coglieva l’essenza del proprio spirito inquieto, l’ostinata ricerca che lo guidava sempre alla scoperta di un altrove e alla comprensione profonda del “doloroso amore per la vita”.
Il mare è dunque da sempre un paesaggio che ispira a Saba riflessioni esistenziali; del resto lui aveva vissuto circondato dall’elemento acqueo in quel crocevia di uomini e culture che era la città di Trieste.
e Trieste (cioè la mia poesia) era azzurra.
Nell’azzurra immensità marina troviamo lo specchio in cui Umberto Saba si riflette cercando di cogliere l’immagine fragile e imperitura di sé stesso pur nel continuo viavai dell’esistenza. Se nella lirica Ulisse, Saba si identificava con l’eroe greco spinto a compiere un viaggio eterno perché guidato dalla propria inesausta sete di conoscenza, ecco che nella poesia In riva al mare troviamo un altro riferimento all’epica classica, stavolta però al personaggio di Achille, il Pelide. Nell’Iliade, Omero ritrae il proprio eroe “scompagnato” e solo mentre si siede sulla riva a contemplare la distesa marina:
E da’ suoi scompagnato in su la riva
Del grigio mar s’assise, e il mar guardando
Sulla riva del mare, nel primo libro dell’Iliade, assistiamo al pianto sconsolato di Achille che “lagrime spargea” domandando alla madre, la ninfa marina Teti, se è in fondo questo il grande onore e la gloria da lui meritata: “a conforto del viver breve a cui mi partoristi?”
La medesima riflessione sulla morte si intesse nella lirica di Umberto Saba che, in riva al mare, proprio come Achille, sembra piangere un pianto che non si vede. Non uscirà però la divina Teti dal gorgo delle onde a consolare il poeta con dolci parole, Saba si salva da solo ricordando lo smisurato amore che nutre per la vita.
In riva al mare sarebbe stata pubblicata per la prima volta nella raccolta L’amorosa spina (1920), divenendo poi il testo di chiusura del Canzoniere 1921 e infine del volume primo del Canzoniere definitivo.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“In riva al mare” di Umberto Saba: testo
Eran le sei del pomeriggio, un giorno
chiaro festivo. Dietro al Faro, in quelle
parti ove s’ode beatamente il suono
d’una squilla, la voce d’un fanciullo
che gioca in pace intorno alle carcasse
di vecchie navi, presso all’ampio mare
solo seduto; io giunsi, se non erro,
a un culmine del mio dolore umano.Tra i sassi che prendevo per lanciare
nell’onda (ed una galleggiante trave
era il bersaglio), un coccio ho rinvenuto,
un bel coccio marrone, un tempo gaia
utile forma nella cucinetta,
con le finestre aperte al sole e al verde
della collina. E fino a questo un uomo
può assomigliarsi, angosciosamente.Passò una barca con la vela gialla,
che di giallo tingeva il mare sotto;
e il silenzio era estremo. Io della morte
non desiderio provai, ma vergogna
di non averla ancora unica eletta,
d’amare più di lei io qualche cosa
che sulla superficie della terra
si muove, e illude col soave viso.
“In riva al mare” di Umberto Saba: analisi e commento
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La lirica di Saba è, ancora una volta, una poesia narrativa che sin dal principio ci dà delle precise coordinate temporali “eran le sei del pomeriggio” e spaziali, come una narrazione diaristica.
Sappiamo quindi che il poeta si trova sulla riva del mare in un giorno festivo e luminoso: tutta la prima parte è intrisa della brillante fugacità de Le cose leggere e vaganti, si pensi all’aggettivazione utilizzata che sembra rafforzare la serenità limpida del cielo. L’analogia con la scena dell’Iliade e il pianto di Achille è evidente nella parte finale della prima strofa, quando troviamo il riferimento alle “vecchie navi” (Omero invece parla delle carcasse delle navi achee, Ndr), al fatto di essere “solo seduto” e, infine, al sentimento provato: “giunsi al culmine del mio dolore umano”. Solo che a differenza di Achille, Saba non sparge copiose lacrime, la sua tristezza è tutta interiore, perpetrata dal di dentro.
La voce lontana di un fanciullo sembra riportare il poeta alla propria giovinezza. Anche lui, ormai uomo fatto, ne replica il gioco lanciando dei sassi nel mare. Tra questi ritrova “un bel coccio marrone”, che qui assume la stessa funzione del correlativo oggettivo di Montale. In quella pietra minerale si condensa e concretizza la riflessione del poeta, il suo nichilismo di fondo. La condizione umana sembra regredire a quella minerale, alla stasi senza scampo della morte. Il bel coccio riporta il poeta, come una madeleine proustiana, al tempo spensierato della propria infanzia e ad avvertire un legame profondo, inestricabile, con il bambino che fu.
Anche nel finale la poesia sembra presentare un analogia con Alla ricerca del tempo perduto di Proust: il giallo è infatti il colore dominante e si fa emblema, tragico, della morte proprio come nell’episodio della Recherche dedicato alla morte di Bergotte. Se nella narrazione proustiana si parla del quadro di Vermeer, La veduta di Delft, e del “lembo di muro giallo”, nella poesia di Saba è invece una “vela gialla” a prefigurare in modo sinistro la percezione della morte. Si tratta di un’immagine analogica in cui il colore giallo diventa equivalente figurativo del pensiero della morte. I critici fanno notare che il medesimo riferimento ritorna nel finale di una poesia dell’austriaco Hugo von Hofmannsthal intitolata Una nostalgia senza nome:
ma la grande nave lo porta via scivolando muta sull’acqua d’azzurro profondo e cupo con strane, immense vele gialle. (...) Ma io lo sapevo: questa è la morte.
Anche Hofmannsthal, proprio come il poeta triestino, riprende Proust: l’odore dei lillà, che si disperde nell’aria a profusione, riporta infatti alla memoria dell’autore una sorta di presente-passato. La morte, celata nel presagio delle vele gialle “di foggia straniera”, rappresenta invece il presente-futuro.
Le due liriche sono legate dalla medesima luminosità semantica: i rimandi ai colori giallo e azzurro sono una costante, proprio come nella Veduta di Delft citata da Marcel Proust.
Non è però la morte a vincere nella poesia di Saba. Dinnanzi a quella sinistra visione delle “vele gialle” sulla riva del mare il poeta sente sbocciare dentro di sé un invincibile e inesausto amore per la vita. Umberto Saba nei confronti della morte prova vergogna, perché capisce di amare di più l’esistenza fuggevole, illusoria, inconoscibile di tutto ciò che si muove sulla superficie della terra.
Dinnanzi all’azzurra infinità del mare di Trieste Saba viene proiettato nel cuore del mistero umano e da quelle profondità insondabili riemerge, affermando ancora una volta “della vita il periglioso amore”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “In riva al mare” di Umberto Saba: le vele gialle e il doloroso amore per la vita
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