Scrivere poesia non è uno scherzo. Scaturisce dall’anima, certo, ma non è tale se non viene supportata da una ferrea tecnica e da una padronanza della musicalità e del ritmo. La parola non diviene qui importante solo per il significato, ma anche per la sua musica e il ritmo che trascina con sé.
Coloro che recitavano poesie nell’antica Grecia si chiamavano aedi , termine collegato con il verbo ado, ovvero... canto. Avevano una cetra tra le mani, il racconto scivolava tra quelle note, non leggevano mai perché conoscevano quei versi a memoria. Non era faticoso per loro associare la musica ai poemi epici, poiché la struttura del loro verso era talmente precisa da renderlo già dotato di un ritmo, di un suo peculiare andamento. Non a caso l’elemento semplice, alla base di tale schema, si chiamava appunto piede, un insieme, in pratica, di due o tre sillabe che prendeva un nome diverso a seconda della lunghezza delle sillabe che lo componevano. C’erano il dattilo, il trocheo, lo spondeo, il giambo, l’anapesto... Il ritmo del passo si riconosceva ad orecchio, ve ne erano alcuni lenti e pacati come l’incedere di un vecchio saggio, altri zampettanti e rapidi, come il saltellare di un capretto o un fanciullo, altri claudicanti, incerti, sofferti. Il senso non era slegato da questo schema, ogni genere letterario aveva il suo e, addirittura, nelle parti corali della tragedia, si aggiungeva anche la danza (Coro, appunto, da una parola greca che significa “danzo”).
Non voglio tediare nessuno con una lezione sulla metrica greca, a meno che non mi venga espressamente richiesto, ma non vi è nulla di paragonabile al respiro eroico dell’esametro, all’umiltà delle piccole cose propria del distico elegiaco, al ritmo zoppo del giambo, agli anapesti che, con la loro musica incalzante ed energica, accompagnavano le marce della guerra. Una miriade di metri, alcuni presero il nome dal poeta che li usò maggiormente come la strofe saffica o quella alcaica o il cosiddetto anacreontico. I latini, che in queste cose si ispirarono molto ai più ferrati fratelli ellenici, non esitarono a far proprio questo modo di comporre poesia, ogni parola doveva avere una precisa collocazione, un ruolo, e non solo legato al significato ma anche alla sua... misura.
La rima non esisteva, non era importante la chiusa del verso, ma il suo intero corpo.
In epoca moderna Carducci, grande grecista anche se spesso criticato (ma almeno aveva la cultura dalla sua) nelle Odi Barbare si cimentò nella trasformazione di questi antichi metri in una lingua che aveva perduto il senso della quantità a favore dell’accentazione, quella italiana. Le chiamò odi barbare perché immaginava quegli antichi colleghi impegnati a leggere i suoi versi e disprezzarli considerandoli rozzi, inadeguati, poiché composti in una lingua inadeguata.
Infatti l’italiano non è adatto alla metrica quantitativa e si è impegnato a modificare la struttura del verso fin dal suo apparire sulla scena come lingua poetica. Niente più quantità lunga o breve, ma numero delle sillabe, accenti e rima finale. Nacquero allora il sonetto, le terzine dantesche, la ballata, il madrigale e tutti quegli schemi di rime ABBA, ABAB, CDE e chi più ne ha più ne metta. Anche qui la musica però si sentiva, assieme a un certo senso della misura.
Essere poeta non era facile per niente: bisognava padroneggiare la lingua, conoscere sinonimi in grado di occupare un determinato spazio nel verso, o terminanti con specifiche lettere, ripercorrere più e più volte tutta la lirica e ricontrollarla contando, magari, sulle dita. Prova ne sia che i poeti a quei tempi erano rari; è vero che in pochi studiavano, ma anche fra i dotti non tutti scrivevano liriche.
Leopardi mantenne in linea di massima l’endecasillabo, ma lo trasformò in "sciolto", dal latino solutum, libero dalla rima. Compensò con assonanze interne, allitterazioni, anafore e tante altre figure retoriche di suono (se vi interessa che ve ne parli fatemi sapere, non vorrei tediarvi). Diede origine a tutto un mondo di poesia più libera, sempre più staccata dagli antichi schemi e dalla musica con cui era andata tanto d’accordo. Poi con i moderni, gli ermetici, i crepuscolari, sempre meno schematicità, ma sempre attenzione, nonostante tutto, al suono. Anche dove non sembra, anche in “murmure di mare” o “si sta come d’autunno sugli...”.
La poesia è adatta alla recitazione, deve avere un particolare suono, almeno per me, riempire la bocca e la stanza di sibili, di rombi, di gorgoglii. Anche i più rivoluzionari, come i futuristi, esasperavano l’importanza della musicalità della parola poetica, coi loro onomatopeici ranran zaaaf e zang zang, tumb tumb.
Fu poi il tempo di D’Annunzio, con La pioggia nel pineto e quel verseggiare da nenia, quel "chi sa dove, chi sa dove" che ricorda lo scrosciare delle gocce, finché ci perdiamo nel suo mormorare.
Sono cresciuta con queste compagnie e non riesco a considerare poesie una manciata di parole sparse a caso su un foglio. Per questo preferisco una buona canzone a una brutta poesia. Sempre.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Com’è nata la poesia? La storia della musica dello spirito
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