Cuore di cobra
- Autore: Riccardo Riccò, Dario Ricci
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Piemme
- Anno di pubblicazione: 2018
Il ciclismo è sempre stato sudore e fatica, eppure quello moderno pretende ancora di più da campioni e gregari. Medie sempre più alte, salite più dure, percorsi sterrati. Come raggiungere il traguardo senza un aiutino? Non si arriva primi solo col doping, ma senza è inutile partire: è la verità nascosta dello sport del pedale, che Riccardo Riccò smaschera con la collaborazione del giornalista sportivo Dario Ricci, nel libro “Cuore di cobra. Confessioni di un ciclista pericoloso”, uscito a maggio per i tipi Piemme (238 pagine, 17.90 euro).
Riccardo Riccò da Formigine, detto il Cobra, per la zampata che infliggeva agli avversari alzandosi sui pedali in salita. Un grande campione mancato, un rimpianto per il ciclismo nazionale. A differenza degli altri, ha sbagliato tempi e modi della “cura”.
Due tappe e un secondo posto al Giro d’Italia 2008, dietro Contador. Due traguardi anche al Tour, poi la positività all’Epo lo ha estromesso dalla corsa francese e la recidività per un’autoemotrasfusione gli è costata dodici anni di squalifica, fino al 2024. La bici è andata. Ora manda avanti una gelateria a Tenerife.
Doparsi non basta, però senza la “cura” non si vince. È questo il paradosso del “gruppo”, di cui nessuno fiata ma che tutti conoscono, tecnici, medici, stampa, appassionati. E le televisioni, che prevedono gli arrivi alle 17.30, minuto più minuto meno (dimenticando che i ciclisti non sono computer), perché a quell’ora li contemplano i contratti con gli sponsor.
Pensate che si possano fare 200 km in media al giorno per tre settimane solo a pastasciutta e bistecche? Benvenuti nel paese dei sogni e nel mondo ipocrita del ciclismo: non vedo, non sento, non parlo, ma se uno della carovana è pizzicato, allora dagli al dopato, come se gli altri invece…
Davvero pensate che su due ruote si possa sfidare caldo e vento, gelo e pioggia, mandando giù borracce d’acqua, panini, soluzioni di sali minerali, barrette di gel e malto destrine e basta? L’ex ciclista ci dice tutto, nero su bianco.
Moralizzare il ciclismo è una missione per le edizioni Piemme, che nel 2017 hanno già pubblicato “Confessioni di un ciclista mascherato”, in cui Antoine Vayer, l’ex allenatore della Festina (team francese espulso dal Tour 1998 dopo il sequestro di un carico di sostanze dopanti), avanza sospetti sull’eccessiva magrezza dei ciclisti Sky, la squadra di Froome. Si fa ricorso a terapie avveniristiche?
Quanto a Riccò, davanti alla vicenda Pantani - che nel 1999, per un tasso di ematocrito troppo alto, fu costretto ad abbandonare un Giro fino ad allora dominato - tanto Riccardo, allora sedicenne dilettante di belle speranze, che il papà “malato” di ciclismo sapevano che prima o poi il “problema” si sarebbe presentato per l’aspirante campione.
La “cura” è indispensabile. Ti fa sentire bene, attenua la fatica, previene gli infortuni. Insomma, senza la “sostanza” il ciclista non lo fai, punto e basta. Questa è la mentalità, legittimata dall’ambiente che ti circonda.
Il mondo del ciclismo non spinge al doping in modo diretto, scrive Riccò, ma suggerisce, fa capire, induce a provvedere per conto proprio. Così la squadra può godere dei vantaggi del pedalatore “carico”, ma non rischia di rimetterci se qualcosa dovesse andare storto o qualcuno dovesse ficcare il naso.
A 21 anni, il Cobra aveva la fama di “caricone”, eppure ne prendeva meno degli altri, che andavano giù pesante. Testosterone, che migliora la circolazione, ripara lesioni muscolari, rende euforici, brillanti. Ormone della crescita, che dà forza e fa perdere peso, trasformando la massa grassa in magra. Ormoni steroidei, corticosteroidi che incrementano la resistenza, anfetamine che favoriscono l’aumento dei carichi di lavoro.
Corticosteroidi assunti grazie ad esenzioni terapeutiche, antidolorifici, microdosi dopanti e vagonate di vitamine. Poi c’è il famigerato e per tanti benedetto “cocktail belga”, un miscuglio di Epo, ormoni, anfetamine e un minimo di cocaina. A ridosso della corsa, ti rende una bomba. I controlli dopo il traguardo si aggirano in tanti modi, l’importante è non depositare la propria urina, ma sostituirla. L’antidoping non riesce a seguire il progresso farmacologico e ci sono Paesi dove non si effettuano controlli extra gara (Colombia, tanto per non fare nomi).
Si esagera anche col cortisone, che dà forza, ma insieme all’Epo (aumenta i globuli rossi, ossigena il sangue) è quello che impatta più pesantemente sull’organismo, minacciando fegato e reni, oltre a favorire l’ipertensione. A vent’anni, però, non si pensa al dopo, alle controindicazioni.
È chiaro che per gestire questo trattamento tutt’altro che innocuo, c’è bisogno di un team di specialisti. Ci sono medici famosi nel settore. Qualcuno è finito nel polverone, altri sono tuttora attivi nel gruppo.
Che significa farsi? Perché tutti si fanno? Vuol dire che a parità di allenamento non si può finire in fondo al gruppo perché “puliti”. Quando anche i “ciccioni” ti lasciano dietro in pianura, ti metti a pensare. Ed è finita…
Cuore di cobra. Confessioni di un ciclista pericoloso
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