E tu non sei tornato - Marceline Loridan
- Autore: Ivens
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
- Anno di pubblicazione: 2015
E tu non sei tornato (titolo originale Et tu n’es pas revenu) è l’autobiografia di Marceline Loridan-Ivens, autrice di origine ebrea polacca, scritta con Judith Perrignon, edita da Bollati Boringhieri e tradotta da Monica Capuani.
“Sono stata una persona allegra, sai, nonostante quello che ci è successo”.
Una donna anziana, quasi novantenne, ricorda un’adolescente sedicenne, se stessa, i cui occhi assistettero all’orrore e videro l’inimmaginabile. Marceline ripensa a suo padre Schloime, “a quel biglietto che mi hai fatto recapitare laggiù, un pezzo di carta sporco, strappato da una parte, più o meno rettangolare”, che nell’inferno del campo di concentramento di Birkenau, era la testimonianza che, internato ad Auschwitz il più grande campo di sterminio del Terzo Reich poco distante da lì, era ancora vivo.
“Mia cara figlioletta”.
Nel messaggio Schloime supplicava Marceline di resistere, di vivere. Padre e figlia erano stati catturati dalla Gestapo nell’aprile del 1944 e condotti a Drancy, vicino a Parigi, il più importante campo di transito per ebrei catturati sul suolo francese, dove “non sapevamo ancora dove stavamo andando”. Qui il presentimento che accomunava Schloime e Marceline era lo stesso: i treni dove venivano fatti salire i deportati erano diretti verso il grande Est, verso quelle stesse regioni dalle quali gli ebrei erano fuggiti non molto tempo prima. “Andiamo a Pirchipoi” ripetevano tutti, parola yiddish che indica una direzione sconosciuta e che ha un suono dolce alle orecchie dei bambini. Anche quei treni in partenza andavano a Pirchipoi, era questo il rassicurante pensiero degli uomini che passeggiavano nel cortile di Drancy aspettando il loro destino. A Drancy, Marceline aveva detto a suo padre:
“Lavoreremo laggiù e ci ritroveremo la domenica”.
Schloime aveva risposto:
“Tu forse tornerai perché sei giovane, io invece non tornerò”.
E infatti il padre di Marceline non tornò mai più dalla sua famiglia, sua figlia al contrario deportata ad Auschwitz-Birkenau, poi a Bergen-Belsen, infine a Theresienstadt, fece il viaggio di ritorno verso casa con l’animo profondamente mutato, consapevole di ciò che aveva visto, legata al ricordo tormentoso di Schloime.
“Quella profezia si è impressa dentro di me in maniera tanto violenta e definitiva quanto la matricola 78750 sul mio avambraccio sinistro”.
Marceline Loridan-Ivens, nata Rozemberg nel 1928 da genitori ebrei polacchi emigrati in Francia nel 1919, è una celebre cineasta d’Oltralpe, attrice, scenografa e documentarista, moglie di Joris Ivens, olandese (detto l’olandese volante), considerato uno dei maggiori documentaristi del XX Secolo.
L’autrice, tra le ultime sopravvissute ai lager nei quali scomparvero 76.5000 ebrei francesi, settantun anni dopo pubblica un piccolo testo di poco più di cento pagine dall’impatto emotivo devastante. Senza retorica, raccontando la verità, Marceline a ottantasette anni, scrive una lettera/dialogo al padre amatissimo, ombra di quel quarantenne che fino a poco tempo prima era proprietario di una fabbrica di maglieria a Nancy. Nonostante ciò “per me eri ancora un mago, un uomo capace di farmi restare a bocca aperta”, com’era accaduto quando quest’uomo “un po’ pazzo” aveva acquistato per la famiglia un piccolo castello nel Sud, a Bollène.
“Che cosa desideri di più al mondo, Marceline?”
Nell’estate del ’44 la II Guerra Mondiale stava per terminare, Parigi era stata liberata, ad Auschwitz-Birkenau, “Auschwitz era ai margini di una cittadina, Birkenau si trovava in mezzo alla campagna”, i prigionieri erano ormai al limite, si viveva solo il presente, i minuti a venire, “più niente poteva alimentare la speranza, la speranza era morta”, e ciò era avvenuto quando Marceline aveva osservato una bambina aggrappata alla sua bambola, con lo sguardo perso, percorrere la strada per le camere a gas.
Dietro di lei probabilmente mesi di terrore e di fiato sul collo. Sola, appena separata dall’ultimo abbraccio con i suoi genitori, la bambina, alla quale tra poco le avrebbero strappato i vestiti, “somigliava già alla sua bambola inerte”.
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