Nella sezione intitolata “Romancero” della raccolta La meglio gioventù si legge El testament Coràn: intenso componimento di Pier Paolo Pasolini scritto in dialetto friulano di 72 versi.
Il poeta, utilizzando un’insolita strategia, fa raccontare ad un ragazzo già morto, orfano di sedici anni, la sua triste e bruciante vicenda di giovinezza interrotta: ucciso per rappresaglia dai tedeschi nel 1944.
L’identikit tracciato da Pasolini è incastonato in uno scenario da ripresa filmica, scorrono infatti fotogrammi che narrano in modo avvincente la sua autobiografia postuma.
Come ha scritto Monica Venturini:
L’andamento ricorda gli autoepitaffi dell’ “Antologia” di Edgar Lee Masters; il titolo e la metrica (strofe di otto versi suddivisi in due quartine a rime alterne) sono modellati sul “Testament di Villon”.
Le parole che egli dice a conclusione del poemetto danno risalto al suo eroismo:
Lassi in reditàt la me imàdin / ta la cosientha dai siòrs... Coi todescs no ài vut timour / de tradì la me dovenetha. / Viva il coragiu, el dolòur / e la nothentha dei puarèth!.
In italiano: Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi... con i tedeschi non ho avuto paura di tradire la mia giovinezza. Viva il coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri.
Ne riportiamo alcune quartine.
El testament Coràn di Pasolini: testo
Mi eri un pithu de sèdese ani
con un cuòr rugio e pothale
cui vuoj coma rosi rovani
e i ciavièj coma chej de me mare.
Scuminthievi a dujà a li bali,
a ondi i rith, a balà de fiesta.
Scarpi scuri! ciamesi clari!
dovenetha, tiara foresta![...]
In mieth da la platha un muàrt
ta na potha de sanc glath.
Tal paese desert coma un mar
quatro todèscs a me àn ciapàt
e thigànt rugio a me àn menàt
ta un camio fer in ta l’umbría.
Dopo tre dis a me àn piciàt
in tal moràr de l’osteria.Lassi in reditàt la me imàdin
ta la cosientha dai siòrs.
I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin
dei me tamari sudòurs.
Coi todescs no ài vut timòur
de lassà la me dovenetha.
Viva el coragiu, el dolòur
e la nothentha dei puarèth!
El testament Coràn di Pasolini: traduzione italiana
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Nel mille novecento quaranta quattro facevo il famiglio dei Boter: era il nostro tempo sacro arso dal sole del dovere. Nuvole nere sul focolare, macchie bianche nel cielo, erano la paura e il piacere di amare la falce e il martello. Io ero un ragazzo di sedici anni, con un cuore ruvido e disordinato, con gli occhi come rose roventi e i capelli come quelli di mia madre. Cominciavo a giocare alle carte, a ungere i ricci, a ballare di festa. Scarpe scure, camicia chiara, giovinezza, terra straniera!
In quel tempo si andava a rane di notte col fanale e la fiocina. Rico insanguinava le canne e le erbacce col fanale rosso, nell’ombra che gelava le ossa. Nel Sile si trovavano pesciolini a migliaia dentro le pozze. Andavamo piano senza un grido. Nel boschetto dei pioppi appena mangiato si radunava tutta la compagnia dei ragazzi, e lì spesso si bestemmiava e come uccelli si cantava. Dopo giocavamo alle carte all’ombra del granoturco. La madre e il padre erano morti. Di Domenica, uomini dal cuore rozzo, si correva via in bicicletta per luoghi di un incanto senza prezzo. E una sera ho visto la Neta, nella luce del boschetto, che conduceva al pascolo la pecora. Con il suo ramoscello essa muoveva l’aria di seta.
Io odoravo di erba e letame e dei sudori rassegnati nel mio caldo torace di corame; e i calzoni infilati sui fianchi, dimenticati dall’alba, non coprivano la voglia gonfia di albe assopite e di sere senza fresco di pioggia.
Per la prima volta ho provato con quella ragazza di tredici anni, e pieno di ardore sono scappato a raccontarlo ai miei compagni. Era Sabato ma per le strade non si vedeva neanche un cane. La casa dei Sellàn bruciava. Le luci erano tutte spente. In mezzo alla piazza c’era un morto in una pozza di sangue agghiacciato. Nel paese deserto come un mare quattro tedeschi mi hanno preso e gridando rabbiosi mi hanno condotto su un camion fermo nell’ombra. Dopo tre giorni mi hanno impiccato al gelso dell’osteria. Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi. Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano dei miei rozzi sudori. Coi tedeschi non ho avuto paura di lasciare la mia giovinezza.
Viva il coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri!
El testament Coràn di Pasolini: analisi e commento
È una poesia percorsa da una coinvolgente suspense che non esclude la tenerezza; potremmo dirla una cronaca in versi. Connotata da un realismo psicologico, può leggersi come il testamento di una vita di stenti e insieme come resoconto che percorre strade diverse e inaspettate di una quotidianità anche gioiosa e sentimentale.
Se i personaggi di Masters appartengono ad un mondo senza eroi, qui il ragazzo con tutta la purezza dell’animo suscitando ammirazione per avere conquistato la sua libertà con quella straziante morte. Pasolini non nasconde sotto il tappeto dell’omertà lo sfruttamento sui poveri ad opera del potere e fa di lui, più vivo che in vita, l’emblema della passione contro i soprusi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “El testament Coràn” di Pier Paolo Pasolini: la Spoon River pasoliniana
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