Eraldo Baldini nasce a Russi (RA). Dopo essersi specializzato in Antropologia Culturale ed Etnografia ed aver scritto diversi saggi in quei campi, agli inizi degli anni Novanta si dedica alla narrativa. Nel 1991 vince il Mystfest di Cattolica col racconto "Re di Carnevale": è lì che inizia la sua carriera di scrittore. Oggi è non solo romanziere affermato in Italia e all’estero, ma anche sceneggiatore, autore teatrale e organizzatore di eventi culturali.
Eraldo, intanto ti do il benvenuto a quella che non sarà la solita intervista chilometrica, ma solo 4 chiacchiere contate.
- Prima chiacchiera: Il riconoscimento del Mystfest di Cattolica è per te il segnale che chiarisce ogni dubbio sul tuo futuro, che ti convince che nella vita vuoi raccontare storie. Dal lontano 1991 al grande successo del tuo primo romanzo, "Mal’aria", passano, però, 7 anni. Perché tanto tempo? Quanto è stato difficile convincere qualcuno a credere in te?
Per la verità, “Mal’aria” non è il mio primo romanzo. Pubblicai nel 1995 “Bambine” e nel 1996 “L’uccisore”, entrambi per le edizioni Theoria, allora molto in auge e impegnate a lanciare nuovi autori: due libri che andarono bene, furono tradotti per l’estero e vennero più tardi acquisiti da altri editori che li riproposero. Nei primi anni ’90, comunque, più che alla narrativa mi dedicavo alla saggistica: sono per formazione di studi un antropologo culturale, e in quel tempo ero principalmente dedito a pubblicare studi sulle culture popolari; inoltre lavoravo come responsabile dell’ufficio stampa di una grande azienda. Dal 1998, anno in cui ho abbandonato il lavoro d’ufficio, mi sono dedicato soprattutto alla narrativa, scrivendo in media un romanzo o una raccolta di racconti all’anno. Posso dire che non mi è stato difficile arrivare alle case editrici nazionali e a poter vivere del mio lavoro di scrittura, e per questo mi ritengo fortunato.
- Seconda chiacchiera: Sei da molti considerato il re del noir italiano. Da "Mal’aria" non ti sei più fermato alternando romanzi tuoi, a libri che vedono la partecipazione di altri autori come Carlo Lucarelli, Giampiero Rigosi, Giuseppe Bellosi e Massimo Cotto. Come riesci a creare una sintonia di intenti ed espressione con altre menti che probabilmente hanno una visione diversa del noir e del come narrarlo?
I libri che portano, oltre al mio nome, quelli di Lucarelli, Rigosi e Cotto sono in realtà raccolte di racconti: io ho scritto i miei senza alcuna interazione con gli altri autori. Il libro scritto con Bellosi, “Halloween”, è un saggio di antropologia, in cui ci siamo semplicemente divisi le parti da scrivere. L’unico libro di narrativa che ho scritto a quattro mani, dunque, è il recente romanzo “Quell’estate di sangue e di luna” (Einaudi), scritto con Alessandro Fabbri, un giovane autore e sceneggiatore molto bravo. Devo dire che la scrittura a due non è facile, necessita di un costante confronto e di una quantità di lavoro enorme, ma è stimolante perché la sinergia di due menti, di due immaginari e di due esperienze riesce a tirar fuori da una storia tutte le sue potenzialità.
- Terza chiacchiera: Ti sperimenti molto sia nel racconto che nel romanzo, due forme narrative che ti appartengono seppur molto diverse fra loro. Vorrei soffermarmi sul racconto e su quanto sia necessario trovare quello spunto geniale che illumini una storia di poche pagine, il fulcro attorno a cui far ruotare tutto. Ho letto alcuni commenti di lettori delusi dalle tue raccolte di racconti. Qualcuno le definisce storielle pseudo-horror, qualcun altro parla di banalità sconcertante, altri ancora di uno Stephen King sbiadito, poco incisivo, prevedibile. Unanimi, invece, i commenti positivi ai tuoi romanzi che paiono convincere tutti. Come te lo spieghi?
Non mi è facile rispondere, perché la domanda mi lascia un po’ perplesso. I miei due lavori più venduti, premiati e apprezzati sono, credo, proprio le mie due raccolte di racconti, “Gotico rurale” (Frassinelli) e “Bambini, ragni e altri predatori” (Einaudi). Al di là di ciò, anche quei due libri, come tutti gli altri, hanno ricevuto commenti di ogni genere, da quelli positivi (di gran lunga i più numerosi, per fortuna e per onor del vero) a quelli negativi; è normale che sia così, è una cosa a cui gli autori sono abituati, e non credo che la distinzione passi tra l’uso delle forme (romanzo o racconto): passa semplicemente dai gusti di chi legge, senza dimenticare che in Italia la forma racconto è un po’ negletta, e sembra entusiasmare raramente sia i lettori che gli editori, sempre piuttosto restii a pubblicare opere di tal genere. A me, sia come autore che come lettore, la forma racconto piace molto, mi stimola forse ancor più del romanzo.
- Quarta chiacchiera: Quello che mi ha colpito e stregato di "Come il lupo" è l’atmosfera d’inquietudine che avvolge come una nebbia non soltanto i luoghi, ma anche l’animo dei personaggi che li percorrono, e quello del lettore, di conseguenza. Non fai economia di descrizioni a cui dedichi molte pagine senza che il lettore si senta mai stanco, anzi, vorrebbe leggere ancora. Hai sempre avuto questa qualità descrittiva? Come vinci la paura che il lettore possa annoiarsi che, immagino, di tanto in tanto si presenterà come un dubbio mentre scrivi?
Ho sempre ritenuto che l’ambientazione sia importante almeno quanto la trama e i personaggi, e che un storia assuma veramente una fisionomia e un’anima solo se è collocata bene in un luogo, in un contesto fisico e ambientale. Non mi piacciono i romanzi e i racconti a “dimensione piatta”, quelli che ignorano completamente il lato descrittivo, perché secondo me sono monchi, mancano di qualcosa, come un brano musicale a cui venga sottratto il suono di uno o più strumenti. Certo occorre arrivare a un buon equilibrio, alla misura: non eccedere, come in tutte le cose.
Questa era l’ultima chiacchiera e quindi ti saluto e ti ringrazio per aver accettato il mio invito e un grosso in bocca al lupo perché so che sei immerso in una nuova storia.
Un ringraziamento e un affettuoso saluto a te e a tutti i lettori.
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