Vi siete accorti che spesso citiamo Leopardi senza renderci conto di citare Leopardi? L’influenza del “giovane favoloso” della letteratura italiana sulla nostra lingua è stata tale da plasmare il linguaggio quotidiano secondo dei modi di dire propriamente leopardiani.
La leoparditudine è ormai fortemente radicata nell’italianità, tanto da aver creato una sorta di lingua “poetica” all’interno della lingua comune. Se l’influsso di Manzoni, considerato il padre della prosa moderna, è ormai riconosciuto anche a livello scolastico, quello di Giacomo Leopardi è forse meno noto: i due padri della letteratura italiana sono ufficialmente considerati Dante per la poesia e Manzoni per la prosa, ma nel mezzo, va detto, c’è Leopardi. Non possiamo negare che il poeta dell’Infinito abbia contribuito a forgiare l’immaginario comune, non solo attraverso la sua teoria del vago e dell’indefinito o la forse più celebre teoria del piacere.
In fondo siamo tutti d’accordo con Giacomo Leopardi, il poeta filosofo della letteratura italiana, quando afferma che, in quanto esseri umani, siamo sempre alla ricerca di un piacere infinito come soddisfazione di un desiderio illimitato. Questa è l’origine, segreta, di tutte le nostre insoddisfazioni, le nostre meschine infelicità, le nostre angosce. E, sebbene a volte lo prendiamo un po’ in giro, facendone parodia o ironizzando sulla sua (solo presunta) gobba, in verità troviamo in Leopardi il consolatore supremo, colui che ha dato un nome a tutte le nostre infelicità e poi, alla fine, ci ha detto che la vita è bella: come osservava acutamente il critico Francesco De Sanctis, “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone”, perché non crede alla libertà eppure te la fa amare, chiama illusioni la virtù, l’amicizia, l’amore e te ne accende nel petto un “desiderio inesausto”.
Siamo tutti degli eterni apprendisti della filosofia leopardiana che sembra comprendere e magnificare ogni aspetto della vita: non c’è aspetto dell’esistenza, a ben vedere, che il geniale poeta non abbia trattato in prosa o poesia o nella sterminata trattatistica del suo Zibaldone di pensieri. Studiando Leopardi lo abbiamo introiettato, sino a farne un simbolo, anche linguistico. Parliamo di lui anche quando non parliamo di lui; è uno dei letterati che meglio ha plasmato la lingua, proprio perché è riuscito a forgiare, in modo personalissimo come riesce soltanto ai grandi, l’immaginario.
Il contributo di Giacomo Leopardi alla lingua italiana
Lo Zibaldone di Leopardi è ricco di riferimenti alla superiorità o all’eccellenza della lingua italiana, che il giovane favoloso riteneva la “più libera di tutte le lingue moderne”, poiché conservava inalterata l’indole della lingua latina. L’italiano, scrive Leopardi nello Zibaldone, ha “più facilità di farsi intendere, di far vedere”. Il francese, proseguiva, ha la capacità di dire quel che vuole, ma l’italiano te lo mette sotto gli occhi. Già in queste riflessioni squisitamente linguistiche possiamo intuire il grande apporto fornito da Leopardi alla lingua italiana, ma a quella “lingua perfetta” - come la definiva - il poeta avrebbe apportato il proprio contributo chiarificatore. Tanto è vero che ancora oggi ci troviamo a ripetere delle espressioni leopardiane per rimarcare un concetto: perché Leopardi ha trovato le parole giuste, la capacità esatta “di dire”, il massimo grado di significanza per esprimere un concetto sfuggente, sia pure la vastità dell’Infinito.
10 espressioni di Leopardi entrate nella lingua
Quali sono le espressioni di Giacomo Leopardi entrate nel linguaggio comune? Senza dubbio dobbiamo a Leopardi il fatto di aver creato un proprio personale sostrato linguistico legato alla semantica del “vago e dell’indefinito”, amalgamato di un pessimismo in realtà intriso di misticismo, toccando una visione che si lega strettamente alla percezione interiore. C’erano cose che, prima di Leopardi, non erano mai state dette: lui, il giovane favoloso, ha trovato il modo di dirle.
- 1. Pessimismo cosmico: Leopardi perviene al concetto di pessimismo cosmico quando giunge a teorizzare che l’infelicità è connaturata alla natura dell’uomo, alla stessa esistenza, superando il “pessimismo storico” che invece vedeva la storia come causa dell’infelicità umana. L’espressione pessimismo cosmico è talmente assoluta, talmente universale, che spesso la utilizziamo anche noi nel parlato per indicare uno stato di depressione senza via d’uscita, una visione buia e incolore della vita, oppure per prendere in giro quell’amico (che molto spesso,diciamolo,siamo noi) che vede il bicchiere sempre mezzo vuoto. Non v’è dubbio che il pessimismo cosmico è la cifra fondante, esemplare della leoparditudine, ovvero dello stato d’animo leopardiano per eccellenza.
- 2. Le sudate carte: la celebre metonimia utilizzata da Leopardi nella poesia A Silvia dove appare l’espressione “Io gli studi leggiadri/Talor lasciando e le sudate carte”, è molto in voga tra gli studenti, specialmente quando sono in procinto di sostenere un esame e allora lo studio diventa faticoso, totalizzante, soverchiante. Nella figura retorica della metonimia il poeta univa le pagine dei libri composte da carta (il materiale identifica l’oggetto) con il sudore della fronte che invece identificava la fatica, lo sforzo intellettuale.
- 3. Lo Zibaldone: il diario di vita e di pensiero di Giacomo Leopardi è diventato, per estensione, il diario di tutti i diari. Nelle pagine del monumentale diario leopardiano erano contenute riflessioni, appunti, aforismi, l’apporto intellettivo di una vita, cosicché spesso “lo zibaldone” viene nominato anche in maniera ironica per indicare un libro scritto in prima persona da un autore dalle grandi aspirazioni letterarie. Spesso si tratta della proverbiale opera incompiuta, lunga quanto la vita stessa. E voi, siete sicuri di aver finito di scrivere il vostro Zibaldone?
- 4. Il passero solitario: la figura del Passero solitario, descritta da Leopardi nella poesia omonima, è diventato l’emblema della solitudine esistenziale, ma anche di uno stato d’animo di emarginazione e di esclusione tipico della gioventù. Nella figura dell’animale, in cui Leopardi si identificava, è racchiusa sia l’attitudine alla solitudine che il rimpianto per non riuscire a godere del tempo che fugge via. Possiamo identificarvi la figura di un outsider, in realtà i “passeri solitari” sono più diffusi di quel che pensiamo, non solo tra gli adolescenti.
- 5. Rimembri ancora: l’incipit straordinario di A Silvia è entrato nell’immaginario collettivo, tanto da essere usato spesso - imitando scherzosamente un linguaggio aulico - per ricordare un evento ormai lontano nel tempo: Rimembri ancora?. Nella poesia Leopardi si rivolgeva a colei che non poteva rispondere, a una fanciulla morta nel fiore degli anni, dunque la sua era una domanda retorica; riformulandolo nel presente noi spesso ci rivolgiamo a un interlocutore reale, ma rievochiamo un tempo ormai scomparso, remoto, ormai irraggiungibile.
- 6. Il sabato del villaggio: l’altro celebre canto leopardiano, Il sabato del villaggio, è ritenuto il manifesto della Teoria del piacere. In questa lirica il poeta racchiudeva uno dei punti cardine della propria filosofia per dimostrare che il piacere non è mai attuale, godibile, ma è sempre proiettato in un futuro prossimo. Parafrasando: l’attesa del piacere è il vero piacere, per questo il sabato viene descritto come un giorno più felice della domenica in cui invece si consuma l’attesa festa. La stessa ragione può essere applicata a molte altre circostanze, reali o simboliche, come la vigilia di Natale ritenuta migliore del Natale stesso. Il “sabato del villaggio” è entrato nel linguaggio comune per designare uno stato d’animo di attesa, di gioia non ancora disillusa, ovvero come unica forma di felicità possibile.
- 7. Natura matrigna: a Leopardi dobbiamo anche il fatto di aver colto il vero volto della natura, spesso al giorno d’oggi nella descrizione di eventi climatici estremi - ormai ben radicati nel presente - ricorriamo all’espressione di “natura matrigna” per descrivere il conflitto tra uomo e forze naturali. Già Lucrezio, nel De Rerum Natura, del resto osservava che la natura non agisce pensando all’uomo; e lo stesso Charles Darwin avrebbe parlato di una “natura, rossa di zanne e di artigli”: a Giacomo Leopardi dobbiamo il fatto di aver condensato questa espressione in una concezione e, infine, in un concetto perfettamente efficace.
Questa visione della natura faceva la sua apparizione nell’Operetta morale dal titolo Dialogo della Natura e di un islandese e veniva chiarita in questi termini:
Tu sei nemica scoperta degli uomini e degli altri animali, e di tutte le opere tue, ora c’insidi, ora ci minacci, ora ci assali, ora ci pungi, ora ci percuoti, ora ci laceri, e sempre o ci offendi, o ci perseguiti .
- 8. L’ermo colle: con questa espressione, in apertura dell’idillio L’Infinito, Giacomo Leopardi identificava il colle di Recanati, il Monte Tabor, ma, proprio per la sua efficacia, è giunta a designare il luogo solitario per eccellenza dove hanno luogo riflessioni e meditazioni. L’ermo colle, nel linguaggio comune, è diventato anche un luogo dello spirito dove ritirarsi per meditare a fondo sulla propria vita, le proprie scelte, i propri desideri. L’aggettivo aulico “ermo” indica ciò che è solitario, abbandonato, ma affiancato a colle sembra designare un luogo non luogo, uno spazio della mente e dell’anima, che non trova un reale corrispettivo nella geografia fisica.
- 9. L’Infinito: nella sua poesia capolavoro, l’idillio più celebre, l’Infinito, Giacomo Leopardi ha creato una peculiare visione. Quando ci riferiamo all’Infinito, nel linguaggio comune, lo facciamo spesso in senso leopardiano: non ci limitiamo a definire uno spazio illimitato all’orizzonte, ma intendiamo anche l’emozione - connessa alla sfera romantica del sublime, del meraviglioso - connessa a tale spazio. L’infinito - nel nostro immaginario - è ormai forgiato dalla concezione analoga degli “interminati spazi” e della “profondissima quiete”, di un’immensità che non è solo fisica, ma esistenziale, nella quale il cuore per poco “non si spaura” poiché non riesce quasi a concepirla né a indovinarne la fine.
- 10. L’arido vero: il concetto è ripreso da Leopardi nelle Operette morali per indicare la verità quale l’annientamento e l’annientabilità di ogni cosa. Solo attraverso la ragione, secondo il poeta, potremo concepire la verità delle cose che non è mai consolatoria o mite, è appunto “arida” e spesso ci lascia l’amaro in bocca. Proprio per la sua pregnante significanza, il concetto di “arido vero” è spesso ripreso nel parlato per indicare la realtà al suo massimo grado, la realtà intesa nella propria manifestazione più drammatica, incomprensibile, anti-provvidenziale.
Nella scoperta dell’arido vero, ovvero della forza della ragione filosofica, troviamo il passaggio dal Leopardi degli idilli a quello delle Operette morali, lo scarto significativo tra poesia e prosa. L’arido vero è il fondamento effettivo della realtà, al di là di ogni illusione o immaginazione, ciò che l’uomo spesso non vuole vedere. Rappresenta l’approdo del pensiero leopardiano, ben espresso anche nel canto testamento della Ginestra. Neppure il fiore resiliente che cresce sulle pendici del Vesuvio è in grado di opporsi a questa realtà, ovvero a una sorte di sofferenza e dolore, un destino che può provare a combattere - senza piegare il capo - ma non a vincere.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: 10 espressioni di Giacomo Leopardi entrate nel linguaggio comune
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