Favol’io
- Autore: Irene Caliendo
Il rapporto dell’autrice di questo libro con la scrittura è contraddistinto da alterne vicende, da abbandoni e ritorni, riscoperte e riconoscimenti maturi ma inequivocabili, che hanno portato infine all’apertura verso diversi orizzonti creativi, dalle esperienze teatrali a quelle poetiche: Irene non ignora dunque quanto della mimica, della musica e della danza, possa celarsi e riaffiorare nelle liquide architetture della prosa.
"Favol’io" è un libro ‘liquido’ anche nel suo sfuggire ad una chiara catalogazione. La contraddizione immediata e irriverente si ha già nel titolo: la dimensione collettiva e parenetica della favola col suo originale background indistinto e universale viene ricondotta con aggancio solido alla dimensione privata dell’io. Il sottotitolo recita ambiguamente: “13 favole per bambini raccontate agli adulti”. Il cortocircuito tra il destinatario mondo dell’infanzia e l’esibita mediazione del canale rappresentato dall’orecchio adulto, per usare una terminologia alla Jacobson, non è affatto retorica, come non appartiene alla pacificazione delle fiabe la scelta certo non casuale del numero tredici.
Come ben si sa, il numero tredici è il numero dell’esoterismo per eccellenza. Secondo la tradizione magica, sarebbe esistito un calendario egizio con un tredicesimo mese, il mese della rottura di tutti gli schemi consolidati, della rimozione esuberante di ogni stereotipo, che rappresentava il rovesciamento del mondo. Il 13 fa saltare gli equilibri, crea inquietudine: è lo scandalo, se è vero che dodici erano gli apostoli e il tredicesimo il Figlio di Dio...
In "Favol’io" lo scandalo e l’alterazione degli equilibri provengono innanzitutto dalla scelta degli alternativi sguardi sul mondo che la fanno da protagonisti: sguardi di bambini – in particolare bambine – e poi di donne, di animali… E’ evidente quanto solo un punto di vista ‘alieno’ possa far emergere la verità sempre scomoda e irriverente della fiaba. E l’imprevedibile per eccellenza appartiene al femminile, perché il femminile afferra legami universali che alla logica maschile a volte sfuggono o che allo spirito pragmatico del nostro tempo non dicono più nulla, pur essendo essenziali e vitali. Il femminile stringe alleanze varcando perfino i limiti assegnati dalla natura, ma soprattutto fa paura perché infrange il buon senso, non solo borghese, su cui si costruiscono le regole sociali.
Nei migliori racconti di Irene, assistiamo al fondersi della componente fiabesca con l’elemento cronachistico, anche duro e potenzialmente destabilizzante quanto una denuncia. L’armonia tra le due facce sottolinea l’esistenza per l’autrice di una visione non edulcorata della realtà. Forse per questo non trovo molto azzeccata la comparazione tra Saint-Exupery e Caliendo, che pur è stata fatta. Lo scrittore de"Il Piccolo Principe" abbraccia con più compiuta determinazione la scelta narrativa della fiaba poetica, il cui sapore educativo e morale diventa inscindibile dalla componente morbida, a tratti anche eccessivamente zuccherosa, delle metafore naturalistiche o legate al mondo animale che ridisegnano un mondo liricamente atteggiato, per quanto seducente e persuasivo. Qui invece il travestimento della realtà, che spesso è il motivo d’ispirazione, anche autobiografica, da cui parte Irene, con la sua deviante energia, con la sua insopprimibile urgenza e irriducibilità alle norme consolidate, è piuttosto comparabile con l’illustre lezione di modelli che sul fronte della sperimentazione narrativa oscillante tra realismo e letteratura fantastica hanno brillantemente operato: Queneau e Calvino, per restare ai riferimenti più immediati. E tuttavia proprio questa rinuncia al tono edulcorato, accondiscendente e riparatore, è, nei racconti di Irene, il punto di contatto profondo tra la dimensione fiabesca e quella realistica .
Recensione a cura di Luisa Gasbarri
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