Fratelli d’anima
- Autore: David Diop
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Neri Pozza
- Anno di pubblicazione: 2019
Un romanzo pubblicato da poco e un autore già premiato. David Diop ha meritato il Premio Strega Europeo, perché Fratelli d’anima è un grande lavoro, un testo forte, spesso crudele, ma scritto con estrema eleganza dall’autore senegalese e ben tradotto da Giovanni Bogliolo. È uscito nella primavera 2019, per le edizioni Neri Pozza (122 pagine, 16 euro).
Diop, nato a Parigi e cresciuto in Senegal, insegna letteratura del 1700 nell’università di Pau e con questo secondo titolo nella sua carriera da scrittore ha fatto centro, vincendo per cominciare il prestigioso Premio Goncourt dei Liceali.
In copertina, un’immagine eloquente: il volto asciutto di un ragazzo di colore, che indossa un elmetto della guerra 14-18 e una riconoscibile uniforme francese. È uno dei 200mila fucilieri senegalesi che l’esercito transalpino impegnò sul fronte occidentale contro i tedeschi.
La vicenda del romanzo è inventata, però i contenuti atroci sono tanto esasperati quanto reali (la guerra, del resto, è sangue, mutilazioni, ferite orrende), resi accettabili solo dall’altissima qualità della scrittura di David. Si riferisce peraltro ad un contesto di vicende vere, perché quei ragazzoni senegalesi furono effettivamente gettati in trincea, a combattere una guerra non loro. Il bisnonno Diop era stato uno di quei soldati, molto stimati dai francesi, che li consideravano una élite guerriera.
C’è una forma di evidente razzismo nell’impiego di quelle truppe in quella guerra. Il colonialismo considerava dei “selvaggi”, quei combattenti valorosi. Faceva affidamento sulla sacrosanta paura che i ragazzi neri longilinei avrebbero suscitato nel nemico, impugnando un coltellaccio. E i tedeschi, i boches (come i francesi chiamavano i germanici), erano chiaramente impressionati dai “selvaggi”, che combattevano una guerra corpo a corpo non convenzionale, spiazzante.
Diop porta alla sublimazione questi controvalori: vogliono che si comportino da “selvaggi” e loro combattono una guerra da “selvaggi”. Storpiano, sventrano, decapitano. Così vogliono quelli? Così fanno loro, perché costretti.
Il capitano Armand spinge i suoi “cioccolatini neri” (detto senza affetto) contro i tedeschi col fucile in una mano e il machete nell’altra, urlando come pazzi furiosi.
Alfa Ndiaye e Mademba Diop sono due soldati di Armand, fraterni amici in Senegal. Le trincee fangose luride, l’odore di morte, le granate che le arano non sono il loro habitat e quella divisa che indossano è del tutto estranea, ma sono obbligati a rintanarsi nella terra e ad uscirne a comando, correndo verso le linee opposte, ignorando i compagni che cadono intorno e si presenteranno nell’al di là sfigurati, ridotti in uno stato “che dio si vergognerà di vederli arrivare”.
Mademba impiega quasi un giorno a morire, dall’alba a sera, con il dentro del corpo di fuori, le visceri all’aria, fuoriuscite dal ventre squarciato con la baionetta da un tedesco fintosi morto nella terra di nessuno. Ndiaye è rimasto tutto il tempo accanto a lui, tenendogli la mano, resistendo alla richiesta dell’amico di ucciderlo. Tre volte gli ha ripetuto di mettere fine alle sue sofferenze senza speranza.
Alfa riporta il cadavere nella trincea francese. Compagni e ufficiali si congratulano per la sua tenacia, ma non si dà pace per non aver accolto la richiesta di Mademba di finirlo ed ora cambia atteggiamento. Non aveva il diritto di togliere la vita all’amico, non l’ha ascoltato, ma ascolterà il nemico.
Taglia la gola agli uomini con gli occhi azzurri che sorprende in ricognizione, andando letteralmente a caccia di prede umane. Li immobilizza tagliando il polpaccio, denuda il ventre bianco e lo apre, scoprendo le budella e facendole scivolare calde e puzzolenti in terra. Ma alla seconda richiesta di quegli occhi sofferenti, dispensa una morte misericordiosa.
È l’ultimo a tornare in trincea, molto dopo gli altri. Fino alla terza mano di un nemico, riportata insieme al fucile che impugnava quell’arto ora mutilato, ha ricevuto complimenti ed anche un’altra medaglia. Alla quarta mano, i sorrisi sono diventati meno aperti, insinceri, esitanti. Hanno cominciato tutti a bisbigliare. Non solo i toulab, i bianchi, dimostrano di avere paura di lui, ora anche i compagni di colore lo considerano un amico della morte, un domm, uno spirito divoratore di anime.
La guerra è sporca, ma per il capitano il comportamento di Ndiaye è crudele, è malato. Alfa viene spedito nelle retrovie, visitato, studiato, sottoposto al giudizio severo di chi si attendeva da lui un comportamento da selvaggio, ma non quel comportamento selvaggio. Sette mani mozzate al nemico sono un orrore inaccettabile anche in una guerra insana e le colpe vengono ribaltate addosso alla vittima, a quel soldato “cioccolatino” gettato in un inferno e diventato un diavolo.
Che i soldati uccidano, facciano anche i selvaggi quando serve, ma solo fino a un certo punto, poi diventano un pericolo per la propria società, non solo per il nemico. Fanno paura anche a chi vuole che facciano paura.
Fratelli d'anima
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