Frida Kahlo
- Autore: Achille Bonito Oliva e Martha Zamora
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Giunti
- Anno di pubblicazione: 2018
Ho visitato a Trieste la mostra dedicata a Frida Kahlo (1907-1954), una delle più grandi artiste del Novecento, confermata da Picasso come la migliore ritrattista in assoluto. La mostra è prorogata fino al 21 agosto, un evento culturale che regala bellezza, forza contro il dolore, dignità umana e calore, come tutta l’opera di Frida del resto.
Ho acquistato il catalogo delle opere, un piccolo gioiello di 50 pagine, edizione Giunti, seconda ristampa 2018, reperibile in ogni libreria e in rete, facente parte della collezione "arte dossier”, con la firma di due critici prestigiosi, coautori del testo, ma ciascuno scrive il suo saggio: Achille Bonito Oliva e Martha Zamora. Il volume si intitola Frida Kahlo.
In copertina ammiriamo un particolare dell’Autoritratto con collana di spine (1940). Il titolo è emblematico: lei, Frida, ieratica e fiera come un’antica dea, con al collo le spine del dolore fisico e psichico che l’accompagnarono per oltre trent’anni. Negli ultimi tempi poteva vivere soltanto grazie agli antidolorifici, paralizzata, aveva una gamba amputata. Eppure l’artista ha vinto il dolore, se uno dei suoi ultimi quadri rappresenta l’anguria a fette con i semi simbolo dell’eterna rinascita, e la scritta centrale Viva la vida.
Possiamo chiederci come mai abbia ritratto quasi esclusivamente se stessa, senza poter sorridere mai, ma contornata dalla natura e da esseri umani amati: i nonni, i genitori, amici, l’adorato artista e marito Diego Rivera, impenitente donnaiolo ma suo maestro, a sua volta avvinto a lei con passione, sposato due volte, e immaginiamo le crisi e le torture coniugali, i reciproci tradimenti (lei anche con tendenze saffiche di cui Rivera non era geloso), fino a rendersi conto di appartenere indissolubilmente l’uno all’altro per destino. Alla morte di Frida, Rivera piomba nella disperazione e nella depressione. In diversi ritratti lei pone l’immagine di lui al centro della sua stessa fronte, nel famoso "terzo occhio" della chiaroveggenza. È davvero l’"amato immortale", secondo l’espressione romantica di Beethoven. Ma in quel centro frontale di verità e conoscenza Frida pone anche la morte, lo scheletro, molto presente nei suoi quadri.
Perché sempre autoritratti? Lei, colpita quasi a morte, trapassata da parte a parte da un tubo metallico nel ventre, nell’adolescenza, a 18 anni, le ossa quasi tutte spezzate, in un incidente drammatico dello scuolabus in cui viaggiava, investito fatalmente da un tram. Inoltre era affetta da spina bifida dall’età dei sei anni.
Perché sempre lei con gli amati pappagalli, gli uccelli, i fiori, le scimmiette? Lei che indossa abiti della tradizione messicana, preziosi, ricamati a mano, ma pure semplici indumenti contadini; lei con monili e gioielli forgiati dagli artigiani del suo popolo; lei amica intima di Trozsky con cui ebbe una breve relazione; lei nel momento della nascita, lei fotografata in carrozzella, lei. Con stile multiplo e unico, espressionista, surreale, onirico, magico, naïf, primitivo, ispirato a sculture azteche, acceso di colori rubati alla sua terra ma anche all’immaginazione.
Il perché è spiegato dalla stessa artista: dice di essere lei il soggetto che conosce meglio, in cui si addensa tutto il significato della vita.
Un quadro, L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra, Diego, io e il signor Xoloti, 1949, con Diego adulto-bambino in grembo, cullato al ritmo del cosmo e delle piante lussureggianti intorno, spiega chiaramente la sua poetica pittorica. In sé, in un’anima aperta al tutto, Frida contiene l’universo, proprio come canta Lucio Battisti su versi di Mogol: "L’universo trova spazio dentro me".
La sua sincerità totale è per noi straziante e pure insegnamento: dipinge il dolore dei suoi aborti, gravidanze impossibili da portare a termine; sofferenze palesate e condivise con il mondo; eppure, in un altro dipinto del 1953, mette in evidenza la sua protesi e con immenso coraggio scrive:
"Perché voglio i piedi se ho le ali per volare".
Nei ritratti ha sempre le sopracciglia unite, credo per comunicare che la vita è sintesi di un dualismo. In un quadro di Rivera, Sogno di una domenica pomeriggio ad Alameda Park, 1947, Frida ritratta in seconda fila tra altri, dietro una signora “bene” ridicolizzata dal pittore, tiene in mano il simbolo cosmico cinese, il cerchio yin e yang, di due colori, nero e bianco, luce e tenebre inscindibili.
Ne Il piccolo cervo, dipinto nel 1946, l’animale nel bosco è trafitto da frecce, ha il suo stesso volto. Il messaggio è lo stesso: vivere, amare, patire, essere colpita, torturata, morire, ma eternarsi nell’arte. Sono i grandi temi ineludibili, presenti nei nostri stessi pensieri. Cosa resterà di noi, se non l’impalpabile, che l’arte sa vedere?
Nel primo saggio di Martha Zamora, Frida dei dolori, l’accento è posto sul contesto sociale: siamo a ridosso della rivoluzione del 1910-1920, in cui l’artista e il marito riposero grandi speranze. In gran parte il popolo era analfabeta; il governo commissiona opere murali e suggerisce i temi, ma Diego Rivera, uno dei maggiori artisti del genere, va oltre i desideri della committenza politica, ritrae minatori e contadini sfruttati. La sua è pittura di denuncia.
Frida molto giovane lo avvicina per mostrargli le sue opere. Scoppia la passione, lui ha il doppio degli anni di lei. Lei è pazza di lui, un leader del movimento muralista, libero e anticonvenzionale. Frida con Diego può esprimere il fuoco interiore tenuto a bada da un’educazione borghese.
Secondo Zamora, la pittrice non voleva figli e i suoi aborti furono provocati. Questa tesi non è suffragata da alcuna prova o dichiarazione. Nella mostra, nei pannelli esplicativi, si sostiene il contrario.
Frida ama la vita e vuole viverla in modo intenso:
"A dispetto dei suoi mali, non perde occasione per offrire grandi banchetti ai suoi amici, beve alcolici in quantità, fuma continuamente e ascolta musica in un’atmosfera impregnata di profumi che la aiutano ad allontanare la sua struggente malinconia.”
Muore nella notte del 13 luglio 1954:
"Ufficialmente di un edema polmonare, più probabilmente di una volontaria overdose di Demoral, derivato della morfina, farmaco da cui era dipendente.”
Il secondo saggio di Achille Bonito Oliva, Bella di nessuno, va a fondo nell’inconscio della pittrice, ne sottolinea l’istinto di morte, la pittura di ciò che è stato e si eternizza nella posa. Considera Frida paradossalmente salvatrice di vita quanto più pone l’accento sulla morte, secondo il pensiero barocco spagnolo amerindo, ma pure molto vicino ai sentimenti di Van Gogh, il grande infelice, afferma Oliva. Van Gogh però è un credente in Dio, mentre Frida si affida alla sua immagine come eterno presente. È stoica, forte, non produce "immagini salvifiche per il mondo", ma
"l’edonismo creativo di chi non si lascia colpevolizzare da un’economia di una morale da adulti, per questo conciliante. La morte stronca la giovane vita di Frida lasciandoci una riserva di immagini capaci di esibire le spoglie narcisistiche di un erotismo che, seppure mutilato, rappresenta l’unico deterrente per delirare alla fine di un’epoca di speranze.”
Allora, arguisco, è l’antesignana della formula “fate l’amore, non la guerra”.
In tal senso Frida Kahlo è tragica, pur nell’apparente, e pur reale, esuberanza.
Frida Kahlo
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