Giovanni D’Alessandro nasce a Ravenna nel 1955. Laureato in legge, vive e lavora a Pescara. Esordisce con ‘Se un Dio pietoso’ pubblicato da Donzelli nel 1996, grande caso editoriale, vincitore del premio Viareggio e tradotto dai maggiori editori europei. Il secondo, ‘I fuochi dei kelt’ (Mondadori), vince il Premio Scanno 2005, mentre il terzo, ‘La Puttana del tedesco’ (Rizzoli), si aggiudica il Premio Internazionale Fenice Europa 2007. L’anno dopo pubblica la sua prima raccolta
di racconti ‘Il guardiano dei giardini del Cielo’ per le edizioni San Paolo. Il terremoto aquilano lo spinge a raccogliere, assieme al fotografo Stefano Schirato, parole e immagini dedicate a L’Aquila nella sua ultima pubblicazione ‘Sulle rovine di noi’ sempre con la casa editrice San Paolo.
Giovanni, ti do il benvenuto a quella che non sarà la solita intervista chilometrica, ma solo 4 chiacchiere contate.
Ottimo. Concordo sull’impostazione. Amo la sintesi. E’ un esercizio intellettuale, prima che una forma espressiva. Einstein diceva che se un concetto impiega più di trenta secondi per essere espresso, vuol dire che non c’è alcun concetto da esprimere. Ed era il padre della teoria della
relatività.
- Prima chiacchiera: Molti hanno definito i tuoi scritti ‘storici’, a me invece pare che la storia sia il
palcoscenico sul quale i personaggi si esibiscono, una scenografia preziosa, pesante, sostanziosa; non il motivo principale delle storie, ma lo sfondo. Non sembri voler raccontare la storia dell’Umanità, ma quella dei tuoi personaggi che nella storia dell’Umanità si muovono, è così?
È proprio così. La massima parte della narrativa è per forza di cose “storica”nel senso tecnico del termine, solo che non sa di esserlo. Oggi si tende a collegare impropriamente questo termine a ciò che è ambientato nel passato. Ma il passato cos’è? L’oggi, lo ieri, l’altro ieri? O semplicemente il tempo in cui non hanno corso le nostre vite? O è forse ciò che si colloca prima un secolo definito,
che funga da spartiacque? E’ certamente storico il contesto romano-gallico dei miei “Fuochi dei kelt”, il 52 a.C. E lo è anche l’Abruzzo del 1708 di “Se un Dio pietoso”. Ma non lo è forse anche la valle di Sulmona durante l’occupazione tedesca del 193-44 de “La puttana del tedesco”? E il romanzo che uscirà a fine estate, ambientato nel 2010 - in assoluta contemporaneità, quindi -
non è storico? Qual è la differenza tra il 2010 d. C. e il 52 a. C.? In realtà tutti questi concetti, per individuare e circoscrivere il romanzo storico, sono fuorvianti. Le cose sono più semplici.
Chiunque costruisce una storia, crea un set, come si direbbe al cinema, dove far muovere i suoi personaggi e dove agire le sue storie. Ogni narrazione è contestualizzata in determinate categorie spazio-temporali. Mi si conceda la voluta tautologia, per esprimere quest’idea con un pizzico di
provocazione: ogni storia, se narrativamente tale, è… storica.
- Seconda chiacchiera: In un’intervista hai dichiarato: “L’amore è fatto di parole esagerate, o non ha voce. È fatto di sbagli, o non è fatto di niente”. Mi ha incuriosito questa tua visione tipica dell’entusiasmo adolescenziale. Ce la spieghi? È possibile continuare a credere, con gli anni che si accumulano assieme alle esperienze, che l’amore sia tutto questo?
Non l’ho dichiarato, l’ho scritto, quella da te virgolettata è una citazione de “La puttana del tedesco”, che è una storia d’amore tra una donna italiana e un soldato austriaco. E l’ho scritto perché ne sono convinto. Con tanta più autorità di me, tre secoli fa diceva Samuel Johnson: “l’amore è la saggezza del folle e la follia del saggio”. Visione adolescenziale? Magari l’avessi conservata. Romantica? Non so se si chiami così, ma sì. Certo. Dichiaratamente e
programmaticamente. Se sottraiamo all’amore la sua carica di follia, di eversione di tutto ciò che ci imprigiona, e di libertà (o almeno di illusione di libertà), che ne resta? Nel mio primo romanzo ho scritto di più, circa il rapporto tra pathos e logos nell’amore: “Solo la passione salva l’uomo
dalla ragione”
- Terza chiacchiera: Sei nato a Ravenna, come sei finito in Abruzzo e a Pescara? Cosa dell’Abruzzo ti affascina al punto da permettere alle sue tinte di colorare tutte le tue storie? Di libri post-terremoto ne sono usciti molti. Diari, resoconti di quella notte, libri fotografici, molti pubblicati sull’onda della vendibilità del fenomeno e distribuiti paradossalmente quasi solo a L’Aquila e provincia. ‘Sulle rovine di noi’ cos’ha di diverso?
Sono nato e vissuto per vari anni dell’infanzia a Ravenna – un po’ più a nord, sullo stesso mare Adriatico, come mi piace dire - ma sono di famiglia abruzzese, quantunque non radicata nel territorio; l’Abruzzo è stata una riacquisizione e lo amo perché è una regione magica: l’Abruzzo
magari “lieto dove non passa l’uomo”, per dirla con Ungaretti. La solitudine delle sue cime, che sono le più alte dell’Appennino. Il respiro profondo dei suoi boschi. I laghi che specchiano il suo cielo, limpido o corrusco. I suoi castelli, le sue pievi lunari, i suoi monasteri isolati. La perdita di senso della realtà che questa regione trasmette, a due passi dalle grandi concentrazioni urbane di Roma, o della Campania, o della Puglia; i grandi silenzi che produce, come scriveva Manganelli. Amo quindi l’Abruzzo montano, più di quello ”riminese” della costa, dove pure vivo, ben integrato, da decenni (a Pescara) e che m’intriga, ma non mi prende al cuore. E hai ragione a dire che “colora delle sue tinte” quasi tutte le mie storie. La prova più evidente di ciò è nel libro dedicato al terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 edito alla fine di quell’anno: “Sulle rovine di noi”. È un tributo a questa terra, che mi veniva da dentro e che dovevo dare: ho interrotto la stesura del romanzo, che uscirà a quest’anno, nel 2011, per scrivere il libro sul terremoto dell’Abruzzo. Dovevo farlo, reclamava priorità, mi urgeva dentro. E’ stato uno shock vivere il terremoto nella realtà, dopo aver trattato, quindici anni fa, col mio primo romanzo “Se un Dio pietoso” l’Abruzzo nei terremoti aquilani e sulmonesi del 1703 e del 1706. Ciò che avevo trattato narrativamente ridiventava realtà; moltissimi quotidiani e magazine mi chiedevano pezzi, dunque, e glieli ho dati. Ma c’era qualcosa che dovevo scrivere per me, non per i giornali.. Dovevo
cicatrizzare la ferita, anzi no: dovevo prima riconoscere l’amore ferito dentro di me; dar spazio alla commozione per una città che amavo e amo moltissimo, prostrata e che per decenni non sarà abitabile. Per la passione verso l’Abruzzo, questo libro, “Sulle rovine di noi”, che non è tecnicamente un romanzo anche se è un libro di racconti come tu hai ben colto, questo…non- romanzo dunque, è il mio libro più incontrollato, più strappato da dentro. Anche se ora sono di necessità tornato al romanzo, che è il mio habitat scrittorio.
- Quarta chiacchiera: Hai dimostrato di voler sperimentare continuamente tematiche, stili, linguaggi, intrecci; ‘Sulle rovine di noi’ ne è la riprova. Sei alla continua ricerca di un approdo artistico, oppure nella tua letteratura non vi è approdo, solo una continua ricerca?
Nella letteratura non c’è approdo. E’ continua e anche inconscia ricerca. Non esiste letteratura acquietata. Amo la varietà di registri, tematici e stilistici. M’ispira. E mi mette anche alla prova. Questa è la mia sperimentazione e non penso che ne farò mai a meno, perché mi è essenziale. Chiunque scrive raccoglie, più o meno consciamente, una sfida a evolversi di pagina in pagina.
Sennò che scrive a fare?
- Questa era l’ultima chiacchiera: non mi resta che salutarti e ringraziarti per aver accettato il mio invito, facendoti molti in bocca al lupo per il tuo futuro. Se vuoi lasciare un messaggio al mondo intero o qualche anticipazione, qui puoi farlo.
Opto per il messaggio galattico, che consiste in un imperativo: scrivete. Non importa se per far leggere ciò che scrivete a un milione di persone, a centomila, a venticinque lettori o alla vostra compagna o al vostro compagno o solo a voi stessi o neppure a voi stessi. Scrivete. E’ un obbligo.
Non abbiate inibizioni nel riconoscervi scrittori. Lo siamo tutti. Siamo animali scrittorii. Il pubblicare professionalmente con grandi editori è semmai un inquinamento della vera scrittura, che ti traghetta nel bookmaking, dimensione di produzione seriale già abbastanza alterativa dalla vera scrittura. Va integrata la famosa frase di Aristotele: “l’uomo è per natura un animale politico”, cioè portato a vivere in aggregazioni. Lo è di certo. Ma “l’uomo è anche un animale scrittorio“, come dicevo prima, nella società evoluta, cioè portato a quest’attività di trasmissione del pensiero attraverso segni. E vi è una magia nel farlo. Non ne conosciamo le cause, ma ne conosciamo gli effetti ossia scrivere fa stare bene: libera chimiche misteriosissime che nessuno è
riuscito spiegare, sebbene ci si siano rotti la testa in molti. Ferma il tempo, ha scritto qualcuno.
Avvicina alla nostra realtà la realtà parallela, ha scritto qualcun altro. Fa sorridere i morti e li richiama a noi; li sentiamo intorno, a tratti, perché li abbiamo evocati scrivendo. E tanto altro ancora. Chiedimi se un giorno scopriranno il perché di questa magia.
Te lo chiedo.
La mia risposta è no. Perché se dovessero scoprirlo, cesserebbe la magia. Ma siccome la scrittura è una magia troppo forte, conserverà per sempre il suo segreto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Giovanni D’Alessandro
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