Giovanni Giudici, il poeta discreto della letteratura italiana. Il suo nome passa quasi in sordina, mentre meriterebbe un ruolo di primo piano nella poesia del secondo Novecento. Nasceva a Le Grazie, in Liguria, il 26 giugno del 1924, l’autore della raccolta La vita in versi (“Lo Specchio”, Mondadori, maggio 1965) che ancora oggi ci offre una lezione indimenticabile di poetica della quotidianità.
Raramente la poesia di Giudici viene studiata a scuola, dove sovente le viene preferito il lirismo estetizzante dannunziano, l’ermetismo di Salvatore Quasimodo e il Canzoniere di Saba - più spesso il suo nome si incontra nelle aule universitarie ed è una rivelazione, innanzitutto per l’immediatezza comunicativa della sua voce poetica; in secondo luogo per la democraticità dei suoi versi che sembrano toccare, da vicino, la vita di ogni essere umano nella sua perfetta fusione di promessa e nostalgia.
Giudici ci consegna uno sguardo nitido sulle cose, in una sintesi dell’esistenza che è al contempo kafkiana e metafisica. È un poeta che viene spesso definito “anti-lirico” o “anti-novecentesco”, eppure nel suo tessere la “vita in versi” troviamo un’ineludibile spinta all’armonia, pur nella consapevolezza dell’incertezza e della mediocrità del presente.
Nella fallibilità dell’attimo, nel caos scandito dei minuti, delle ore, dei giorni, Giudici rintraccia la poetica minuta del vivere.
Ne deriva un linguaggio “democratico”, che risente dell’influenza dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, quali la televisione e la radio, ma anche estremamente lucido, che si fa testimone del tempo che fugge, restituendoci una maniera precisa di “essere nel mondo”. Ciò che si scopre leggendo la poesia di Giudici, e che pare nuovo, è la solidità materica del vivere, il senso degli oggetti e persino la sostanza palpabile della luce quando scivola radente sulle cose e, così facendo, con il suo moto già destinato a svanire, le rivela nella loro piena essenza.
Leggendo La vita in versi scopriamo, con una certezza che non è incrinata da nessun dubbio, di “essere vivi” nella fiamma bruciante del tempo, di ardere di consapevolezza - umana, civile, razionale e irrazionale - e di coscienza di una realtà inscalfibile, anche nelle sue più atroci contraddizioni.
Giovanni Giudici: la vita
La vita di Giovanni Giudici è contraddistinta da una precoce esperienza del dolore che segnerà, come una ferita interiore, il suo destino di poeta. A soli tre anni perse la madre, morta di parto nel 1927.
Il suo disagio crebbe l’anno successivo quando il padre convolò a nozze con un’altra donna, Clotilde Carpena, dalla quale ebbe altri cinque figli. Strappato alle cure degli amati nonni materni, il piccolo Giovanni si trasferì, al seguito del padre della sua nuova famiglia, nella capitale, dove completò le scuole elementari secondo l’educazione cattolica nel collegio Pontificio “Pio X”.
Sarà questa una delle esperienze fondamentali della biografia di Giudici, come ci dimostra proprio la sezione centrale de La vita in versi dedicata all’Educazione cattolica, in cui ritroviamo la poesia omonima:
Nelle sole parole che ricordo
Di mia madre - che «Dio
Diceva - è in cielo in terra
e in ogni luogo» - la gutturale gh
La fede cattolica viene relegata nello spazio dell’infanzia; in seguito, in parte, tradita. Si ricongiungono in questi versi alcuni dei temi principali della sua poetica. Dopo aver iniziato la Facoltà di Medicina, seguendo il volere del padre, Giudici decise di iscriversi a Lettere che trovava più congeniale alle sue inclinazioni. A questo periodo risalgono le sue prime poesie. Si laureò nel 1945 e iniziò a collaborare con alcune testate come l’Espresso, il Corriere della Sera, l’Unità. Nel 1957 si sarebbe trasferito a Milano per lavorare all’Olivetti per dirigere le riviste di Comunità, in particolare il settimanale Comunità di fabbrica. Emergono qui dei sentimenti chiave delle sue poesie, tra cui l’alienazione e il dissidio interiore da lui percepito in quanto cattolico e socialista.
Quello milanese fu tuttavia il periodo più proficuo e intellettualmente vivace della sua vita: conobbe Franco Fortini, che era suo compagno di stanza alla Olivetti, e tramite lui entrò in contatto con Vittorini, Carlo Bo, Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, fondatori dei Quaderni piacentini.
Sono gli anni tumultuosi, creativi, della scrittura de La vita in versi che uscirà nel 1965 per Mondadori nella collana “Lo Specchio” grazie al supporto di Vittorio Sereni. Era la terza raccolta di Giudici dopo Se sia opportuno trasferirsi in campagna (1961) e L’educazione cattolica (1963) che sarebbero state inglobate nella parte centrale della silloge. Seguiranno altre raccolte poetiche, tra cui le celebri Autobiologia (1969) e O Beatrice (1972), Luce dei tuoi misteri (1984). Il primo testo di Autobiologia si apre quasi con una parodia de La vita in versi, la sua raccolta più famosa, Giudici fa il verso a sé stesso:
Ma cosa vuole con questi lamenti questo / qui – le solite la vita in versi
La riflessione sulla vita di Giovanni Giudici sfiora la vena comica, ma solo per mascherare l’ineludibile sostanza tragica dell’esistenza. L’alienazione, già manifesta nelle prime poesie, ha raggiunto il suo culmine, traducendo un sentire comune all’uomo contemporaneo. C’è molto di Kafka e delle sue metamorfosi, a ben vedere, nella poesia di Giudici, dove l’uomo impiegato - l’uomo burocrate - diventa carceriere e carnefice di sé stesso. Ma l’arte è uno strumento di combattimento, diventa attivismo, arma di difesa: per questo ritroviamo nei versi di Giovanni Giudici il respiro aperto di una speranza. “Metti in versi la vita” è una sorta di imperativo, ciò che anima la voce poetica di Giudici è la volontà di porre un argine al caos, di ordinare il disordine e, infine, trovare il bandolo di un senso attraverso “l’evidenza dei vivi”.
“La vita in versi” di Giovanni Giudici
Link affiliato
Possiamo leggere la prima lirica de La vita in versi, che reca il titolo omonimo della raccolta, come un manifesto di poetica di Giudici. Nella consonanza tra “vivere” e “trascrivere” è racchiusa la semantica dell’essere poeta.
L’arte della poesia diventa un luogo del sentire e, anche, una maniera di rimettersi al mondo. “Parlo di me dal cuore del miracolo”, scrive Giudici in un’altra poesia, ponendo ancora una volta l’accento sull’irripetibilità dell’essere vivi. La vita in versi ci parla della quotidianità spicciola di un’esistenza media, della vita impiegatizia in una cornice piccolo-borghese all’interno di una società che insegue senza sosta gli stendardi del progresso e il falso mito del benessere (la cornice infatti è quella della Milano del boom economico).
La poesia di Giudici tende a demistificare la realtà, narrandola la scompone, la critica, ma così facendo, la amplifica: leggendo i versi ci sentiamo immersi, travolti dalla realtà, dalle preoccupazioni inutili che però appaiono insormontabili, dalla noia, dall’amore slavato dalla vita di coppia, dall’inseguimento di una felicità vicina eppure irraggiungibile.
Restituendoci tutte queste sensazioni comuni, usurate dall’uso eppure effettive, tangibili, Giovanni Giudici ci fa toccare l’origine pulsante, il “cuore del miracolo”.
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te. (...)Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La “vita in versi” di Giovanni Giudici, un poeta impiegato
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Poesia Storia della letteratura Giovanni Giudici
Lascia il tuo commento