Come saranno gli uomini di domani? Il poeta ungherese Attila József ne Gli uomini dell’avvenire ci trasporta in un futuro distopico che in realtà assomiglia al passato: ci narra di un ritorno alle cose semplici, di un popolo che vive in stretto contatto con la natura e ricava il proprio sostentamento vitale dal lavoro manuale.
Gli “uomini dell’avvenire” preconizzati da József non sono poi così distanti dagli ominidi della preistoria: in entrambi i casi si tratta di un umanità allo stato brado, ridotta alla più pura scintilla dell’essere, un’umanità appena nata che passo dopo passo impara a crescere a stare al mondo in un clima di pace, poiché nella sua prima infanzia il mondo ancora non conosce la guerra. Questi “nuovi uomini” hanno polmoni “quieti” capaci di contenere tutto il respiro dell’universo e saranno solidali con il prossimo, poiché ancora non hanno conosciuto l’inganno, la violenza e la brutalità che hanno avvelenato e corrotto il passato.
Gli uomini dell’avvenire è tratta dalla raccolta Con cuore puro (Edizioni Accademia, 1972) a cura di Umberto Albini. Si tratta di una poesia indicibilmente consolatoria che si lega alla biografia del poeta ungherese Attila József e alla sua personale visione del mondo e dei temi sociali. I versi di József si fanno portavoce di un impegno sociale, di una purezza di intenti, in essi l’autore tendeva a sublimare una vissuta in “odore di povertà”.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“Gli uomini dell’avvenire” di Attila József: testo
Essi saranno la mitezza e la forza.
Strapperanno la maschera di ferro
del sapere, perché sul volto dell’anima
si veda. Baceranno il pane, il latte:
carezzeranno il capo dei bambini
ed estrarranno con le stesse mani
ferro ed altri metalli dalle pietre.
Formeranno città dalle montagne
ed i loro polmoni quieti e immensi
assorbiranno tempeste, uragani;
si placherà ogni oceano. Saranno
sempre in attesa d’ospite imprevisto:
anche per lui prepareranno il desco
e gli apriranno il cuore.Siate simili ad essi, perché i vostri
piccoli, che han di giglio i piedi, il mare
di sangue che dinanzi a loro giace,
possano da innocenti attraversare.
“Gli uomini dell’avvenire” di Attila József: analisi e commento
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Gli uomini dell’avvenire di Attila József è un sogno di futuro, che si apre davanti agli occhi come uno spiraglio di luce accecante, come un’alba che ancora non siamo pronti a vedere. Il futuro profetizzato da József è molto diverso da come lo immaginiamo perché, a ben vedere, non ha nulla di “futuristico” o avanzato, anzi, sembra un ritorno alle origini. Perché ciò che sta immaginando Attila József è un’umanità che rinasce, che consegna al mondo il proprio primo vagito e reimpara l’alfabeto del vivere. Questa forza suprema che appartiene alle viscere del mondo, da cui trae origine la linfa stessa del vivere, è la grande risorsa occulta dell’umano. Il poeta non ci parla di un futuro nel quale l’uomo ha raggiunto grandi obiettivi, ha conquistato lo Spazio o sconfitto l’idea stessa di Dio; ma ci parla di un futuro in tutto e per tutto simile al passato, alla vita primitiva della specie umana, in cui l’uomo semplicemente riesce a vivere in pace in un solidarietà serena fatta di gesti semplici e rispetto per l’altro. József non pronuncia nessun atto d’accusa nei confronti dell’uomo moderno, eppure, tra le righe, possiamo cogliere una sottile invettiva al nostro stile di vita sempre più individuale ed egoriferito. Immaginando un futuro in cui l’uomo ritorna allo stato primitivo, Attila József insinua che il mondo - così come è ora - si sta dirigendo dritto verso la rovina e l’autodistruzione. L’apocalisse è la parte non narrata della poesia Gli uomini dell’avvenire, eppure ne costituisce la necessaria premessa. Ci sarà la guerra, l’apoteosi della violenza, e poi nascerà un’umanità nuova e pura, capace di guardare al suo simile come un fratello e non come a un nemico.
La mancata premessa si evince dalla conclusione della poesia quando, con un mutamento di registro repentino, l’autore ritorna al presente e si rivolge all’umanità di oggi e, in particolare, ai figli di questa umanità che ne rappresentano il futuro. Quei bambini, dice József, han di “giglio i piedi”, sono dunque il simbolo stesso della purezza e dell’innocenza; ma dinnanzi a loro si dischiude un “mare di sangue”, una metafora che racchiude e definisce il male del mondo, le guerre, le rivoluzioni, le lotte etniche, la fame e la miseria. In questo forte contrasto, rafforzato dallo scarto tra due tonalità cromatiche “bianco” e “rosso”, è custodito il problema esistenziale alla base della vita umana: perché l’uomo è destinato a soffrire? Perché i bambini, la cosa più pura, la promessa stessa della vita, dovranno un giorno soffrire e morire?
József conclude con un elogio alla virtù umana: l’umanità in cui il poeta crede non macchierà la sua innocenza, non sporcherà le proprie mani con il sangue della violenza. L’umanità in cui il poeta crede è dotata in egual modo di “mitezza” e di “forza” e sarà in grado di costruire un mondo giusto, con fondamenta di pace, questa è la sua profezia sugli uomini dell’avvenire.
Chi era Attila József, poeta ungherese del Novecento
Per comprendere meglio la poesia di Attila József, questa sua distopia futuristica, dobbiamo analizzare brevemente la sua vita. József nacque nel 1905 in Ungheria da una famiglia poverissima. Era figlio di un operaio e di una contadina, ma il padre abbandonò la moglie quando lui era ancora piccolissimo e Attila crebbe in una difficile situazione economica cui si aggiungevano grandi vuoti affettivi. La sensazione di non sentirsi accettato, di sentirsi “fuori posto”, lo accompagnerà per tutta la vita e troverà la maniera di esprimersi solo attraverso la poesia.
Nel corso della sua vita Attila fu costretto a fare i lavori più disparati per mantenersi. Lavoro manuali, faticosi, pesanti e spesso malpagati che prosciugavano tutte le sue energie. La poesia era la sua valvola di sfogo, ciò che gli permise di ottenere qualche riconoscimento e un misero guadagno: alcuni suoi volumi furono infatti pubblicati mentre era in vita.
Attila József morì giovanissimo, nel 1937, in circostanze misteriose. Fu travolto da un treno, ma non fu mai chiarito se si trattò di un incidente o se fosse stato lui stesso a distendersi sui binari con l’intento di farla finita. Forse sperava di rinascere, proprio come i suoi “uomini dell’avvenire” in un mondo più puro e più giusto.
La vita poverissima e misera di József ci permette di comprendere più a fondo il significato della sua poesia: il riferimento ai gesti semplici, alla soddisfazione di bisogni primari come la fame (e qui troviamo, non a caso, il “latte e il pane”) e il lavoro manuale (estrarre i minerali dalle pietre con le loro stesse mani). In questi versi si riflettono anche gli ideali della rivoluzione ungherese e dello Stato comunista: c’è un forte richiamo alla democrazia, alla solidarietà, alla libertà. Erano tutti ideali di futuro in cui lo stesso József, in quel sogno che ancora non osava sognare - poiché era troppo presto - gli sembrava di intravedere la luce abbagliante del “sol dell’avvenire”. Non poteva certo immaginare che, oltre un secolo dopo, la sua profezia sarebbe stata ancora valida.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Gli uomini dell’avvenire”: la poesia di Attila József
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