Gramsci e il jazz
- Autore: Roberto Franchini
- Genere: Musica
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2024
Un rumore fragoroso che niente aveva a che fare con la musica classica e melodica. Il jazz si impose dopo molte critiche e anche Antonio Gramsci, dal carcere, volle dire le sue impressioni, senza peraltro conoscerlo bene. Roberto Franchini, scrittore, giornalista e saggista, ha scritto un libro dal titolo Gramsci e il jazz (Bibliotheka edizioni, 2024), dove si scrivono le critiche e le lodi a una musica nuova e rumorosa come dei piatti caduti per terra.
Scrive Gramsci che
La Francia è l’inizio dell’ Africa tenebrosa e il jazz band è la prima molecola di una civiltà eurafricana.
Scrisse queste parole dal carcere di Milano, nel 1927. Un giudizio che andava a sbattere frontalmente a un libro di un certo successo di Henri Massis, cattolico integralista di estrema destra che odiava il jazz e molte altre cose. La democrazia, ad esempio.
Gramsci traccia in tre punti quello che scaturirà dal jazz:
- è un fenomeno diffuso che piace a milioni di giovani e persone più grandi.
- si tratta di impressioni che lasceranno tracce profonde e durature.
- la commistione tra persone di colore che provengono dagli Stati Uniti e il popolo francese, principalmente, può assumere la forma di "meticciato", ovvero un’infanzia in cui si trovano bambini olivastri, non più bianchi, e questo per l’intellettuale comunista è un problema reale.
D’altra parte i comunisti dell’Unione Sovietica si incapricciarono del jazz, ma quella frenesia di vita cozzava con la tristezza russa: in buona sostanza, non puoi ballare il jazz se devi fare la fila per il pane e la nomenklatura dei soviet fece sparire tutto, dischi e riviste inclusi, e chiuse i pochi posti dove bere e ascoltare musica anche jazz. Gramsci si ritrovò su alcune posizioni sovietiche. D’altra parte, la rivoluzione russa era ancora "in fieri" e l’antiamericanismo era feroce. E nella depressione economica americana del 1929 il jazz poteva allietare solo chi aveva la radio, tra milioni di disoccupati. Gramsci era un comunista e tutto ciò che veniva dagli States era il maledetto capitalismo, la catena di montaggio e nessuna forma di condivisione tra operaio e i piani alti.
Fa tristezza che un intellettuale di tale caratura come Antonio Gramsci sia stato così contrario su come una comunità di "neri" che vivevano a Parigi potessero vivere nel paese, dove la sera Joséphine Baker faceva impazzire gli spettatori col suo casco di banane, idea vincente ma alla fine una forma di "primitivismo" che metteva inquietudine.
Ma giustamente Franchini scrive che se gli africani ballavano con le francesi, in una Parigi capitale delle possibilità, usciti dai night e dai locali da ballo le strutture sociali e razziali tornavano a imporsi. Altro che meticciato, dal momento che non spaventavano solo i neri americani ma i neri africani che venivano nel paese che li aveva colonizzati. Mentre la Russia, o meglio dire l’Unione Sovietica cadeva in un pozzo nerissimo con Stalin e è ancora nei guai.
Gramsci e il jazz è un libro prezioso perché ti dà la possibilità di riprendere in mano la Storia, partendo proprio dal jazz. Roberto Franchini ha scritto un saggio magnifico, ricco di un sacco di spunti e di verità negate.
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