Il Carnevale è un tema ricorrente nelle novelle di Giovanni Verga che spesso lo individua come uno strumento di rifondazione dell’ordine sociale stabilito.
La tradizione carnascialesca acquisisce quindi un valore metaforico e simbolico, ma anche effettivo: lo stesso Verga rimase rapito dalla singolare tradizione catanese delle ’Ntuppatedde di sant’Agata e trasformò quella visione in un ribaltamento dei ruoli di genere, in cui è la donna a vestire i panni dell’uomo. Non è certamente da meno Quel Carnevale furibondo del mese di luglio che simboleggia la rivolta dei contadini di Bronte contro il potere dei padroni nella novella Libertà. Il carnevale nelle novelle di Verga diventa un grido di libertà, di indipendenza, emancipazione e persino un inatteso sovvertimento della morale nella chiusura amara della novella Il carnevale fallo con chi vuoi, in cui a essere punito è chi ha patito il torto e non chi - come il buon senso vorrebbe - l’ha inflitto.
Vediamo un’analisi e un approfondimento delle novelle di Verga più celebri dedicate alla tradizione, a partire da Il Carnevale fallo con chi vuoi.
“Il Carnevale fallo con chi vuoi”: la novella di Verga
Ritrovata dagli studiosi soltanto in tempi recenti, fu Roberto Bigazzi l’artefice della scoperta negli anni Sessanta, la novella di Verga, dal titolo Il Carnevale fallo con chi vuoi, fu pubblicata su “L’illustrazione italiana” il 28 dicembre 1884. Si tratta di un componimento d’occasione, una novella di ambientazione natalizia, che probabilmente slittò nella pubblicazione della rivista perché fu inviata in ritardo e non fu più proposta dall’autore in successive raccolte. Il titolo originale era in realtà più lungo e riprendeva il motto: Il Carnevale fallo con chi vuoi; Pasqua e Natale falli con i tuoi, che è anche la prima battuta pronunciata dal protagonista della storia, Don Menico, che tutto pimpante ritorna al paese dai campi in occasione delle festività. Ma quando giunge dinnanzi all’uscio di casa sua, lo trova chiuso.
L’idillio del ritorno dunque si trasforma in dramma. Don Menico scopre che la moglie lo ha lasciato, è fuggita con un altro, un certo Vito Scanna.
Nello smarrimento della triste scoperta l’uomo viene rimproverato da tutti i compaesani: “Una donna giovane non va lasciata sola, compare Menico!”. E il protagonista sente il torto dell’abbandono cadere su di lui, su lui solo.
L’uomo scopre poi che la moglie, donna Betta, è stata abbandonata anche dall’amante. Il curato lo raccomanda allora, secondo il buon costume, di perdonarla e riaccoglierla in casa in vista del Natale; ma Don Menico, ferito, nell’orgoglio, non vorrà sentir ragioni. E infine sarà punito col “castigo divino”, ovvero una violenta febbre che lo ucciderà in quattro e quattr’otto. A quel punto farà ritorno donna Betta, vestita di nero come si usa nella vedovanza, pronta a vivere nell’agiatezza grazie ai beni (ritorna la famosa “roba”, tema verghiano per eccellenza) che il defunto marito le aveva lasciato - suo malgrado. Il carnevale citato nel titolo si spiega solo nel controverso finale, nella morale contraddittoria: c’è un ribaltamento dell’ordine convenzionale, un sovvertimento delle vittime e dei carnefici, infatti la colpevole trionfa, mentre la vittima - il marito tradito - muore e viene persino derubato della sua “roba”.
“Quel Carnevale furibondo del mese di luglio” nella novella “Libertà”
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Il tema del Carnevale ritorna in una delle più celebri novelle di Verga, Libertà, apparsa su “La Domenica letteraria” il 12 marzo 1882, poi confluita nella celebre raccolta delle Novelle rusticane.
La novella è basata su un fatto realmente accaduto: descrive la genesi della sommossa di Bronte, avvenuta nella località siciliana nell’agosto del 1860 e la sua repressione da parte del luogotenente di Garibaldi, il generale Nino Bixio.
La storia inizia in medias res con un grido “Viva la libertà!”; è l’urlo di rivolta dei contadini che vogliono ribellarsi dalla loro condizione di servi della gleba. Verga descrive in particolare il movimento della folla inferocita, senza controllo, che si muove davanti al Municipio come un mare in tempesta. Il movimento della massa, armata di scuri e falci, diventa presto un’onda incontrollabile che sommerge ogni cosa e sfocia nella violenza.
A metà della novella, quando ormai la sommossa di Bronte ha raggiunto il culmine e si prepara alla ritirata, Giovanni Verga la descrive come una sfilata di carnevale, un Carnevale furibondo di luglio, dunque anomalo, perché fuori stagione. In quest’atmosfera sovversiva, di ribaltamento delle regole stabilite, rintocca - inascoltata - la campana della Chiesa di Dio:
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno.
La metafora del Carnevale viene usata da Verga per indicare il sovvertimento delle regole, il ribaltamento dell’ordine stabilito. L’atmosfera carnascialesca diventa sinonimo di ribellione. Il carnevale viene qui ripreso anche nella sua accezione originaria di festa pagana; in quanto non ode neppure il richiamo all’ordine (e alla tregua) invocato dalla campana della chiesa. La campana suona infatti “senza avemaria” come in un paese barbaro, estraneo alla morale cristiana.
“Le ‘ntuppatedde di sant’Agata” nella novella carnevalesca di Verga
Giovanni Verga dedica anche una novella a un carnevale al femminile, la tradizionale ricorrenza catanese de Le ‘ntuppatedde di sant’Agata. La novella che descrive questa tradizione siciliana si intitola La coda del diavolo ed è contenuta nella raccolta Primavera e altri racconti (1877). Nella festa dedicata alla santa patrona, Sant’Agata, le donne catanesi potevano sfilare per le strade e ridere, mascherate da ’ntuppatedde con il volto coperto da un velo bianco, dimenticando le convenzioni sociali e rivendicando la loro libertà.
Il carnevale, per le donne di Catania, arriva in anticipo, come per l’appunto scrive Verga:
A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c’è la festa di Sant’Agata – gran veglione di cui tutta la città è il teatro – nel quale le signore hanno diritto di mascherarsi sotto il pretesto d’intrigare amici, i conoscenti, e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia il diritto di metterci la punta del naso.
Verga la descrive come una “singolare usanza”, ma certo fu incuriosito da queste donne e dal loro “allegro carnevale”, tanto da trarne uno spunto narrativo. Nella novella si sofferma sul fatto che le donne catanesi approfittavano di quel clima carnascialesco per approcciarsi agli uomini che incontravano per strada. Ancora una volta il carnevale verghiano sovverte le regole, appunto: ecco che ne La coda del diavolo sono le donne, le ’ntuppatedde vestite di bianco, a fare il primo passo e a corteggiare l’uomo, proprio come fa, nella storia di Verga, la bella Lina con il povero Donati.
Queste donne, sottolinea il narratore, erano capaci di rendervi imbecille, di rendervi “innamorato, intontito, balordo” ma la ragione non si sa perché “il segreto delle ’ntuppatedde è sacro”.
Più contemporaneo dei contemporanei Giovanni Verga aveva intuito che quella delle ’Nntuppatedde di sant’Agata era un’usanza destinata a scomparire. Con gli anni infatti a fine Ottocento cadde in disuso, salvo ritornare in tempi recenti a sfilare per le strade di Catania. Verga aveva saggiamente intuito tutta la carica rivoluzionaria e audace di quelle “donne mascherate”, di quel Carnevale al femminile.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il Carnevale nelle novelle di Giovanni Verga: un’analisi
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