Nel volume di versi dal titolo Il cielo di Marte pubblicato da Einaudi nel 2005, Andrea Temporelli (Borgomanero, 1973) rivela sia il suo debito verso la tradizione letteraria dal nostro dopoguerra in poi, sia l’originalità della sua poetica, decisamente e coraggiosamente orientata verso la meditazione filosofica e una narratività modulata ritmicamente. Molte delle trentuno composizioni presenti iniziano e terminano con endecasillabi assolutamente canonici e musicali (“Poiché per lungo tempo ti ho aspettata”, “Trattarla bene occorre questa soglia”, “la migrazione è appena cominciata”...), e molte sono anche le cadenze ereditate dai classici del novecento. Senz’altro Montale (“la voce/ che seppi acerba”, “Lo so, non è il finale che vorresti”, “ e tu ne hai perso/ il {} codice per sempre”), ma anche i lombardi (Sereni, Erba, soprattutto: ma con meno attenzione al paesaggio, e più pensierosa introspezione), e forse anche il Luzi degli anni ’60, con i suoi dialoghi ideologici, gli scandagli psicologici tra colpe, rimorsi e assoluzioni. Nessuna di queste poesie termina col punto fermo, ad evidenziare la volontà dell’autore di sottolineare una continuità formale e contenutistica, una coerenza di espressione che percorre l’intera raccolta: assolutamente omogenea sia nella lunghezza distesa e argomentativa delle varie poesie, sia nel respiro musicale che le attraversa. Eppure non troviamo in esse l’abbandono esplicito alla cantabilità, ma sempre un pudico correggersi nella direzione del controllo intellettuale, del richiamo etico ed esigente alla verità della scrittura. I temi trattati sono diversi: l’amore, ovviamente, ma lontano da ogni sdolcinato romanticismo (da leggere la splendida “Canzone dello sposo”); l’infanzia e le case abitate; gli affetti familiari ( padri invecchiati e figli a cui cantare ninne nanne); gli amici, velleitari cospiratori di rivoluzioni solo immaginate (“Uno direbbe che quei tre seduti/ al tavolo del bar/ siano sul punto di giocarsi l’anima); la scuola e l’insegnamento vissuto come impegno e missione (“questo mestiere povero/ e splendido”), le partenze e i ritorni, i tradimenti e le sconfitte (“Mai sarò pronto al grido di vittoria”). Ma senz’altro il motivo per eccellenza che attraversa la scrittura di Temporelli è l’interrogarsi assiduo e inquieto intorno al mistero dell’esistenza, alle sue domande perenni (“dove affonda l’uncino/ del punto interrogativo?”), insieme al fastidio verso chi, montalianamente, “se ne va sicuro” : “colui che penetra/ la valle senza dubbi e senza fede”. Il poeta ha quindi un dovere, non solo politico e civile (contro “il volto berlusco” dell’economia), ma propriamente morale : denunciare la banalità del male (“Fanne concime, adesso,/ su, {} fanne sentire l’odore atroce”, “fa’ addormentare i potenti del mondo”), e preservare l’innocenza dell’attesa (“Ciò che importa davvero/ è stare eterni e mortali nello sguardo/ del bambino che osserva, da un baluardo/ di carne e ossa e sangue,/ l’infinito indugiare in un sentiero”). Allora, la religione di questi nostri giorni impoetici deve essere non tanto la devozione ipocrita a un dio di false profezie, bensì l’ostinato incardinarsi del sentimento intorno alla parola “pietà”: verso gli uomini e le cose, la natura e le idee, i peccati o l’esibita santità. Il dio di tutti è quindi il “Dio delle discoteche e delle edicole,/ padre delle cubiste/ madre dei buttafuori”: in un cielo di Marte che è sì il pianeta “dell’universo vergine e inondato/ di luce”, ma è anche la divinità pagana, che Temporelli non riconosce più come dio della guerra, bensì come il dio dei campi, benigno “oracolo di padri contadini”, trasformato ormai e imbestialito attraverso le vicende di una storia collettiva, colpevole e sanguinaria. Però da perdonare, da illuminare poeticamente, sapendo “che il senso intero/ era già lì per te, da custodire,/ gratis, semplicemente”.
Il cielo di Marte
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