Il cormorano di Stephen Gregory

Il Male è l’archetipo letterario per eccellenza. Dai prodromi del romanticismo nero giù a discendere, fino alla paccottiglia attuale dei thriller con serial killer (non se ne può davvero più!), l’espediente del male assoluto ha eletto la narrativa a suo terreno privilegiato. Il Male si presta peraltro al colpo di scena: per via del suo camaleontismo può rintracciarsi, infatti, dove meno te lo aspetti, declinato in forme - interiori ed esteriori - spesso spiazzanti. Nei bambini protagonisti di tanta letteratura demoniaca come negli animali-killer da che Moby Dick è stato Moby Dick e gli squali (Peter Benckley) e gli uccelli (Daphne Du Maurier) e i Cujo (Stephen King) gli sono venuti dietro. A nessuno, prima dell’inglese Stephen Gregory, era passato in mente di assegnargli le sembianze beccute di un cormorano (da cui il titolo del libro, “Il cormorano”, Elliot, 2016), lascito di uno zio a una coppia con pargoletto a carico.

Il defunto zio Ian viveva in simbiosi col pennuto e il suo accudimento costituisce la condicio sine qua non per accedere al resto dell’eredità: un cottage nel nord del Galles dove i giovani coniugi hanno deciso di trasferirsi per sfuggire alla routine cittadina. Messa così non sembrerebbe un incarico dell’altro mondo (sembrerebbe anzi un vero e proprio colpo di fortuna), non fosse che l’indole aggressiva dell’uccello comincia a palesarsi in progress fino ad attentare a dinamiche e armonia familiare. Ora non so se avete presente l’aspetto lugubre, vagamente sinistro dei cormorani (così non fosse, prima di cominciare il romanzo, andate su internet a guardarvi qualche foto), oppure se soffrite di ornitofobia (il libro è affollato anche di cigni, di gabbiani, di corvi e quant’altro riesca a staccare le ali da terra e non sia un aereo), quello che so è che gli aspetti perturbanti di questo romanzo non si limitano ai pennuti ma afferiscono, qua e là, anche a possibili epifanie di fantasmi, possessioni (o quanto meno a relazioni pericolose bambino-animale), atmosfere gotiche, fino a un finale aperto che si presta a diverse letture.

C’è infine da dire che il tratto narrativo di Stephen Gregory è di quelli che sanno imporsi, sulla scorta di uno spessore contenutistico e di un’eleganza stilistica mai sterili o fine a se stessi.