Il dio delle piccole cose
- Autore: Arundhati Roy
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Guanda
- Anno di pubblicazione: 2010
Raccontare una storia, decidere quale forma darle e poi soffiare via l’involucro dentro al quale l’abbiamo rinchiusa: questo è “Il dio delle piccole cose”.
Con una scrittura sublime, l’autrice Arundhati Roy ci conduce in quel luogo in cui si ritrovano gli eroi dopo che "la storia sbagliò il passo, fu sorpresa con la guardia abbassata".
L’andamento del romanzo procede come il Minachal "il fiume verde con dentro il cielo e gli alberi", gonfio e forte, "un’assenza piuttosto che una presenza"; una narrazione fitta dell’intima necessità dello spirito di penetrare il mondo reale; una voce inaspettata come un monsone a Dicembre, che si dilegua nel fiume la notte in cui "una barca rovescia il suo carico. Un fiume accetta l’offerta. Una piccola vita."
E il tempo diventa quello segnato da un orologio di plastica con le ore dipinte sopra e sono sempre "dieci alle due".
Tolta o persa, non lo so, la sequenza logica e cronologica dei fatti rimane la perdita di una storia. L’artista con uno stile sul quale soffia l’aria che respira, con una scrittura intinta dei colori e degli umori della terra che la nutre, l’India, trasfigura il dolore della perdita, il lutto, nel frutto di ogni stagione, segnando le pagine di quella gelida consapevolezza insita nel cuore dei protagonisti "che la Vita fosse già Vissuta".
Ciò nonostante Arundhaty Roy riesce a liberare se stessa e a regalarsi il privilegio di narrare tredici notti d’amore nell’indimenticabile capitolo finale "Il costo della vita".
Con gli occhi della bimba di un tempo divenuta avola distende il palmo della mano e magicamente prende vita un amore che può solo approfittare dei scivoloni della storia per godere di un unico momento di gioia.
La follia sgusciò dentro attraverso un interstizio della Storia. Ci mise solo un istante.
Nessun ottimismo fa da sfondo, questo concetto non appartiene alla mentalità indù, infatti la scrittrice registra l’inevitabile fine dei due amanti, prima ancora di raccontare la loro favola.
La narrazione si cristallizza su questo breve momento, finale e conclusivo di due esistenze, durante il quale un uomo, Velutha, e una donna, Ammu, scendono tredici gradini per tuffarsi nelle acque limpide della loro favola intoccabile, spazzata via, per tutto il corso del romanzo, dallo scopino della storia ufficiale, senza lasciare alcuna traccia di sé, esattamente come capitava agli Intoccabili. Persone predestinate a occupare una condizione di invisibilità, prive di identità. Nemmeno una, da esibire allo specchio, unicamente per se stessi. Velutha appartiene alla casta degli Intoccabili e per lui la vita si manifesta solamente nella negazione di essa.
Se la toccava, non poteva parlarle, se l’amava non poteva andarsene, se parlava non poteva ascoltare, se lottava non poteva vincere...
Doo Poo, in un luogo situato nel punto "Davvero Profondo" di questo fiume, i due gemelli dizigoti Estha e Rahel si ritrovano al tempio di Ayenemen e assistono allo spettacolo del Kathakali.
Il kathakali ha scoperto molto tempo fa che il segreto delle Grandi Storie è che esse non hanno segreti. Quelle in cui possiamo entrare da una parte qualunque e starci comodi. Sappiamo in anticipo come vanno a finire, eppure le seguiamo come se non lo sapessimo. E ciononostante vogliamo sentirle un’altra volta. In questo consiste il loro mistero e la loro magia.
E in questo consiste la magia de “Il dio delle piccole cose”, un libro che non dimentica il lettore, dopo un po’ se lo va a riprendere e ricomincia.
Vogliamo ritrovare i gemelli Estha e Rahel, dove finisce l’uno inizia l’altra, il ciondolo al collo di Ammu, la loro mamma, la strega in questa favola sconfitta dalla fata madrina Baby Kochamma, l’ennesimo travestimento della morale corrente ("Una nave di bontà che solcava un mare di peccato") e poi Mammachi e Chacko, mamma indiana e figlio maschio, e ancora Veluhta l’eroe che non uccide il drago e non salva la principessa.
Difficile dire come la Roy sia riuscita a vedere quello che ha visto, l’unica cosa che mi viene in mente è il terzo occhio, quello che le donne indiane con la pasta di sandalo si dipingono fra le sopracciglia. Un occhio che l’ha aiutata a vedere attraverso le apparenze per raggiungere il cuore delle cose. Non è emozionante, non è intrigante, non è le solite cose che si dicono di un libro; inafferrabile se non come lo è un sogno al risveglio:
Ammu, se sei felice in un sogno vale?- domandò Estha. – Vale cosa? - La felicità è valida? Perché la verità è che solo quello che vale è valido. La semplice, irremovibile saggezza dei bambini.
Impressiona il coraggio dell’autrice che non decide di raccontare una storia, ma di scrivere tutto insieme. Lo stile è clamoroso, come il successo che il libro ha riscosso. Edito da TeaDue, ho letto la versione tradotta da Chiara Gabutti, bravissima.
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