Il mio viaggio a Roma
- Autore: Émile Zola
- Anno di pubblicazione: 2013
“Sono arrivato in città questa mattina alle sette dopo aver attraversato la campagna romana all’alba”.
Quello di Emile Zola, giunto a Roma in treno mercoledì 31 ottobre 1894 in compagnia della moglie, non era un viaggio di piacere ma una precisa esigenza letteraria. Lo scrittore, giornalista e saggista francese (1840 – 1902), uno degli autori europei più noti dell’epoca, aveva deciso di ambientare nelle atmosfere dell’Urbe un nuovo romanzo e quindi il creatore del filone naturalista doveva conoscere a fondo la città, il suo tessuto urbanistico, gli storici monumenti e il suo spaccato sociale. Il libro che sarebbe nato si sarebbe chiamato Rome con l’abate Pierre Froment protagonista del ciclo delle Trois Villes (tre romanzi ambientati rispettivamente a Lourdes, Roma e Parigi) che si muove tra luoghi e persone in un’esistenziale ricerca di una fede perduta. Considerato che Lourdes era già stato pubblicato e messo all’indice dalla Chiesa, Zola avrebbe tentato, invano, durante il suo soggiorno romano durato poco più di un mese (31 ottobre – 5 dicembre 1894) , di ottenere udienza da papa Leone XIII.
“La prima tappa del mio giro in città è al Campidoglio. Il Marcaurelio è superbo, forte e potente; il Foro, invece, è piccolo e grigio”.
Il Corso
“è la nostra rue Saint – Honoré: i palazzi, grandi masse quadrate, nudi e tristi dal di fuori con il loro intonaco di un giallo rossastro, all’interno invece sono enormi, vi si avverte l’immensità. Certamente da vedere”.
Sono queste le prime cartoline romane, impressioni di viaggio del cronista parigino sceso al Grand Hotel scritte nel suo taccuino di appunti (tre o quattro pagine al giorno) ora diventato un interessante libro pubblicato dalle edizioni Intra Moenia di Napoli con la bella traduzione di Silvia Accardi e corredato da suggestive fotografie d’epoca. Se il razionale Zola a mente fredda e lucida gira per la città e la campagna romana composta da “terreni tristi dall’erba rada” e con “qualche costruzione dalle tegole giallastre che mi ha ricordato il Midi, fattorie tristi e bruciate, un deserto insomma”, rimane colpito dalla grande bellezza di Roma nonostante le sue analitiche osservazioni.
“Roma era la città dei Papi, non della monarchia italiana. È dunque stata scelta per la sua grandezza passata e morta. Non è che un’idea, che una grande scenografia”.
La città, diventata capitale del Regno d’Italia con la legge numero 33 del febbraio 1871 (“il sogno di Roma capitale è antichissimo”), ha subito importanti modifiche urbanistiche, architettoniche e funzionali tutte annotate e anche criticate da Zola. I piemontesi padroni di Roma hanno voluto costruire “la grande capitale moderna d’Italia” per dimostrare a Pio IX, il Papa del “non possumus”, quello che il nuovo Regno dei Savoia avrebbe potuto fare della capitale in circa vent’anni. Ma ad attivare ogni cosa c’era un’idea lucrosa, “la speculazione della vendita dei terreni”. L’autore di L’Assommoir, Nanà e Germinal visita i quartieri nuovi, soprattutto Prati di Castello. Qui su vasti terreni sono stati creati di botto progetti di quartieri con vie a scacchiera, piazze, grandi case quadrate simili a caserme, alte cinque piani, una “città a schiera”. C’era secoli prima e c’è ancora alla fine del XIX Secolo a Roma questa malattia della pietra, del monumento per la gloria, perché tutti vogliono edificare, lasciare traccia imperitura del proprio passaggio.
“Ogni Papa ha voluto costruire per divenire immortale, come gli imperatori romani che elevavano archi di trionfo”.
L’occhio acuto di Zola osserva e annota che nell’Urbe “ci sono ancora delle grandi fortune, ma non sono più intatte”, che fra il popolo pigro e orgoglioso (“diviso in due metà: i repubblicani, i vecchi del ’49 e i garibaldini, e gli altri che erano per il papato soprattutto perché ne vivevano”), regna la superstizione e l’idolatria. “Si ubriacano e tirano avanti”. Il tipico romano “vive secondo l’idea che la città eterna sia il caput mundi, la testa del mondo e tratta tutti gli altri italiani da buzzurri”. Inoltre prosegue spietato il giornalista Emile a Roma
“sono tutti patrioti, liberali, i cattolici restano fuori, perché il Papa proibisce loro di votare e di farsi eleggere. La nobiltà, che è per il Papa, è dispersa, non può nulla, non ha un suo partito costituito”.
Domenica 11 novembre Zola va a cena all’ambasciata francese a Palazzo Farnese nella grande sala dei Carracci che dà sul Tevere, la sera seguente incontra il Presidente del Consiglio dei Ministri Francesco Crispi in via Gregoriana a casa sua “un uomo ancora giovane per i suoi settantaquattro anni”. Sabato 1 dicembre “sono stato in udienza dal Re”. Umberto I “è un brav’uomo, dall’aria semplice e buona”, martedì 4 dicembre “in udienza dalla Regina”, Margherita di Savoia “donna amabilissima con cui abbiamo parlato di tutto”. Ma in questo insolito Baedeker c’è anche la Roma evocata, la Roma senza tempo e la Roma di mattina contemplata al Gianicolo nel giardino di villa Corsini quando il cielo azzurro è chiaro di una purezza ammirevole e un vento leggero soffia da nord. Zola non se ne rende conto ma la città l’ha sedotto e lui sta compiendo, suo malgrado, il classico Grand Tour:
- il Foro “grigio e desolato”,
- il Colosseo “pizzo di pietra con tutte le sue aperture”,
- il Palatino “un accumulo di palazzi”,
- il Pantheon “il monumento antico meglio conservato”,
- San Pietro “l’anima con i suoi misteri è assente, l’atavismo, la fede, piombano sul colosso di gala”.
Zola non dimentica una visita anche:
- al Pincio la domenica, quando “c’è molta gente per sentire la musica (una musica orribile)”,
- a Villa Medici dove “il giardino è all’italiana”,
- a Testaccio “sporchissimo e verdissimo”,
- al Quirinale “grande caserma gialla”,
- a Ponte Milvio Ponte Molle dove ci sono “statue di pessimo gusto”
- al ritorno passando per via Flaminia dove “ho visto osterie, botteghe miserabili, case intonacate, portali, chiese”,
- a Villa Giulia “graziosa villa con il suo emiciclo sul giardino”
- all’Acqua Acetosa “e di lì la vera campagna” dipinta da Poussin,
- alla Cappella Sistina, perché qui si apprezza “la mostruosità del genio” michelangiolesco e le Logge di Raffaello “fascino e grazia”,
- ai Castelli Romani anche nel villaggio di Rocca di Papa che “si leva ad anfiteatro sopra un cucuzzolo, sopra Monte Cavo”.
Alcuni scorci romani descritti da Zola ricordano la città ritratta da Granet, uno dei maggiori artisti dell’epoca romantica, il quale anche lui come il suo conterraneo Emile girava per l’Urbe taccuino in mano, Francois Marius assorto nel catturare le infinite variazioni di luce del paesaggio capitolino. È sempre la stessa Roma attraversata dal Tevere “porto di mare” che il Papa prigioniero Leone XIII alle soglie del secolo breve scruta dai palazzi vaticani dove il mondo moderno si staglia davanti alla sua vista: la Roma illuminata la sera dall’elettricità e tutte quelle nuove costruzioni che il Pontefice ha visto sorgere dalla sua finestra. Infine, caustica, anticipatrice di un discorso più ampio, senza appello, la diagnosi del giornalista Emile Zola rivolta alla città che lo ha ospitato per un mese e ai suoi abitanti.
“... i romani restano in disparte, come estranei al resto d’Italia, rimpiangono forse il Papa, in venticinque anni non si è effettuata la fusione e la loro anima è altrove. Quindi si tengono in disparte”.
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