Il prete di Verrua
- Autore: Ugo Vittone
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2015
“Dio è morto”. Non può esistere se in guerra i caduti si accatastano uno sull’altro come le fascine. E se a pensarlo è un giovane prete, che in aggiunta ha messo incinta una ragazza di Paese, ci sono tutti i presupposti per un libro. È “Il prete di Verrua”, pubblicato nel 2015 dalle edizioni Nerosubianco di Cuneo (152 pagine, 13.90 euro), terzo lavoro di un dirigente industriale di Verrua Savoia, Ugo Vittone, che si spende tantissimo per la sua comunità (Vrùa, in piemontese).
È uno dei tanti, ma vivi piccoli comuni italiani, nemmeno 1500 abitanti, nel territorio orientale della città metropolitana di Torino, il solo a confinare con tre province: Asti, Vercelli, Alessandria. Sempre protagonista della vita politica e culturale del suo paese, al quale dedica anche un’intesa attività pubblicistica, l’autore l’ha reso protagonista già di due pubblicazioni, "La contessa di Verrua e il segreto della Maja Vestida" nel 2007 e "Il fattaccio di Verrua Savoia e il quadro di Pelizza", nel 2011.
L’argomento del nuovo titolo è ispirato da un episodio di cronaca locale, protagonista un giovane sacerdote di famiglia contadina, nel secondo decennio del 1900, denso di eventi, che hanno disintegrato la secolare lontananza di piccole realtà come Verrua dalla grande macchina della storia. Si pensi alla Grande Guerra, che ha portato ragazzi e uomini di ogni parte più remota d’Italia in quel crogiolo di vita e di morte ch’è stato il fronte trentino-carnico-carsico, nel conflitto contro l’Austria Ungheria.
Vittone ama chiosare la sua prosa con termini e frasi in piemontese ed altri dialetti, che rendono al meglio la babele di linguaggi in quel periodo in zona di guerra.
Don Filippo Antone ha vestito la divisa, sergente di sanità, addetto soprattutto al ristoro spirituale dei soldati in prima linea, un compito che vide impegnati tanti religiosi in quell’immane prova per il Paese. Anche Papa Giovanni è stato sottufficiale con la croce rossa e perfino Padre Pio, sebbene la cattiva salute dell’allora soldatino di Pietrelcina lo trattenesse nella 10a Compagnia di sanità a Napoli, risparmiandogli il fronte.
Nel corso dei combattimenti sul Carso, il reparto di don Antone si macchia di un comportamento che agli occhi del proprio comandante sembra estremamente vile. Nell’ennesimo attacco inutile e sanguinoso, la VII Compagnia arretra. La posizione è imprendibile, non per l’esaltato maggiore che aveva ordinato l’assalto, ritenendolo gioco facile per una schiera di prodi, che come un corpo unico si sarebbero dovuti gettare coraggiosamente contro il nemico, mandandolo solo per questo in fuga. Ma le mitragliatrici che difendevano il Passo del Lupo avevano avuto gioco facile nel fermare la massa di attaccanti senza riparo.
Il rientro dei superstiti nelle linee aveva scatenato la reazione della catena di comando e il generale aveva autorizzato la decimazione della “compagnia ribelle”, ai sensi dell’art. 28 del Codice militare di guerra. Dieci estratti a sorte e fucilati per codardia, il loro tenente davanti alla corte marziale, ufficiale di complemento, un maestro di musica. Quei “fioi d’un can, che si sono stremati come conigli”, avrebbero avuto quello che meritavano, aveva pensato il maggiore. Ed era tutto soddisfatto, prima di ricevere una pallottola in testa. Da un cecchino austriaco?
Don Filippo era stato vicino agli sventurati, sorteggiati a prescindere dalla propria condotta anche coraggiosa fino a quel momento. Ferrerò, il Lagt, Bergoglio, il Munfrin, il Valle, Sandrin, erano stati messi al muro innocenti, colpevoli solo di venire in una conta dopo il 9, il 19, il 29 e così fino al 99.
Dio non lo avrebbe permesso, ma Dio non c’era più, Dio era morto e non restava più nulla a cui l’uomo potesse attenersi e secondo cui potesse regolarsi.
Disgrazia o suicidio? Chiede il sottotitolo in copertina. L’autore esprime una tesi molto chiara, mandando il giovane prete a consultare testi di filosofia e teologia, per chiedere conforto e risposte alla Chiesa.
Significativa, per altri versi, la pagina finale, in cui sono riportare due versioni cronistiche dell’episodio, da punti di vista ideologici opposti.
Il 10 dicembre 1920, un giornale cattolico - premettendo che il Signore, non pago per la cattiveria umana, aveva chiesto un altro sacrificio, chiamando anzitempo a sé un suo ministro – riferiva del ritrovamento sotto la ruota di un mulino del povero corpo del giovane sacerdote. Uscito provato dall’inferno della guerra, spintosi nel luogo solitario per trovare pace, per un piede malposto sulla terra ghiacciata vi aveva trovato la morte, ma anche “la nuova vita, assurgendo a quella celeste”.
Una testata anticlericale informava della macabra scoperta di un mugnaio, che aveva rinvenuto il corpo, vestito dell’abito talare, del giovane curato Don Filippo Antone, annegato. Aveva partecipato ai fatti bellici e al rientro alla vita civile aveva mostrato segni di smarrimento interiore, allontanandosi dagli insegnamenti religiosi:
come emergeva dalle sue prediche, spesso bizzarre e da comportamenti dissoluti, non consoni al suo abito… da solo, per porre fine ai suoi tormenti, è andato a cercare la pace eterna nelle acque.
Il prete di Verrua. Disgrazia o suicidio
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