Il tempo degli uomini
- Autore: Chiara Babeli
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Largo ai giovani motivati, diamo spazio ai nuovi ricercatori di storia locale. Chiara Babeli, poco più che trentenne, è originaria di un paesino dell’Appennino modenese, Prignano sulla Secchia, al quale ha regalato “Il tempo degli uomini”, pubblicato a ottobre 2018 (160 pagine 16 euro), da Epika Edizioni di Valsamoggia, comune della città metropolitana di Bologna. Un testo che da poco ha cominciato il giro delle presentazioni, nelle librerie emiliane.
Chiara è alla prima pubblicazione edita. Laureata in scienze della cultura, si è dedicata ad una ricerca sugli eventi e sui pensieri della propria gente, che messi insieme diventano storia minima locale, vicende minute, ma che assumono un interesse particolare quando appartengono a comunità piccole e provengono da anime semplici, che non avrebbero modo di “uscire” dalle loro valli e pendici.
Undici racconti in fila, di sei donne e cinque uomini. È narrativa, ma soprattutto un documento di storia, un “come eravamo” nel primo cinquantennio del ‘900, anche se sarebbe corretto dire “com’erano”, in quel di Prignano, sebbene le dinamiche sociali espresse siano poi esemplari dell’italianità generale bloccata di allora. Tutto il mondo era paese a quei tempi, quando la società contadina risultava convenzionale, ancorata da secoli a tradizioni non dissimili dal sud al centro e al nord.
I ricchi erano ricchi, il padrone era padrone e i poveri restavano poveri, c’era poco da sperare di crescere socialmente, di raggiungere una condizione migliore e un ceto più rispettato: le ore del giorno bastavano appena per lavorare la terra, accudire gli animali e portare a casa il necessario per sopravvivere. Al di là delle primissime classi elementari, l’istruzione era ristretta alle famiglie borghesi. L’università costava, mantenere i figli nelle poche città sede di atenei era fuori portata dei più.
In effetti, l’ascensore sociale ha preso a salire solo col boom economico degli anni Sessanta e quelli precedenti sono stati decenni di privazioni, di vita grama e tuttavia ancorata a valori saldi, emotivamente rassicuranti.
Intorno alla Secchia, come altrove, esistenze difficili erano legate ai cicli della terra e dalla generosità del cielo (quello atmosferico, perché per chi crede nella Provvidenza il discorso è diverso…). Dal sole e dall’acqua dipendevano i frutti dei campi e i semi da piantare per le stagioni seguenti.
Quello era il tempo degli uomini. E delle donne. E dei bambini e bambine, che fin da piccole tiravano la sfoglia per la pasta, indossando grembiulini chiazzati di bianco dalla farina. Se le femminucce facevano i lavori di casa, i maschietti aiutavano i papà nei campi e nelle stalle. A scuola si andava poco e per poco, giusto il tempo di imparare a leggere, scrivere e far di conto, quel tanto che serviva. La quarta elementare? Un miraggio. Libri in casa non se ne vedevano. Costavano troppo, erano un lusso. Averne di soldi da spendere.
S’andava spose con l’abito della domenica, quello bianco lo indossavano solo le figlie dei signori e si sfornavano figli come conigli. L.A. ne ha allevati tre di primo letto e sette del secondo marito, sposato dopo il ‘45, più uno generato insieme.
Le undici storie parlano di infanzie tristi sull’Appennino, tra le due guerre. Famiglie di tanti bambini, con due genitori, talvolta i nonni e qualche animale.
Giocattoli? D’estate scendevano al fiume e lì almeno c’erano i sassolini levigati. La fantasia non costava.
Francesco aveva solo dieci anni quando è morta la mamma, nel 1931. Dice ch’era malata ai polmoni e il respiro le si spegneva poco a poco. Dal letto lo chiamava spesso, per chiedergli di venirla a salutare, ma lui soffriva troppo a vederla, non ce la faceva nemmeno a sentire la voce lamentosa, rotta da singhiozzi, rantoli e accessi di tosse. Si nascondeva sotto al tavolo. E piangeva.
Era il più grande di quattro bimbe e bimbi. Il papà gli disse che gli toccava stare a casa ad accudirli. Ciao scuola. Solo la terza, anche per lui. Gli toccò anche andare in guerra, tre anni in divisa, però all’armistizio non abbandonò il moschetto, per usarlo contro i tedeschi occupanti. Andò partigiano ed ebbe la fortuna di non restare ferito o catturato e ucciso, come capitò ad altri.
La guerra è arrivata anche a Prignano e non era solo di passaggio, come le fortezze volanti americane lassù in alto o l’immancabile ricognitore, che come in ogni parte d’Italia chiamavano “Pippo”.
C’è chi ricorda l’azione dei partigiani alla quale ha assistito da ragazzina. Erano in sette, un pugno di giovani che presero a sparare da un campanile contro la colonna tedesca in transito sulla strada lungo il fiume Secchia.
I germanici erano tanti e soldati esperti. Corsero su verso il paese e intanto davano fuoco ai covoni, poi alle case. La famiglia si nascose col cuore in gola in una costruzione in campagna. A un certo momento si udì del calpestio fuori e il padre uscì a vedere, convinto che fossero partigiani da aiutare. Ma i ribelli non portavano le divise dei tedeschi. Stavano rastrellando, convinti che i banditen non potessero essere soltanto sette.
Il papà si accorse troppo tardi dell’errore, ormai lo avevano visto. Due lo affiancarono e portarono via, la ragazza fece in tempo a scorgere il gesto che il babbo le rivolse. Sii forte e coraggiosa. Fu l’ultima volta che lo vide.
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