Ruvido umano
- Autore: Mariangela Gualtieri
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2024
Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951), poetessa e fondatrice con Cesare Ronconi del Teatro Valdoca, ha pubblicato nella collana di poesia della casa editrice Einaudi una nuova raccolta di versi che si intitola Ruvido umano (2024).
L’aggettivo sostantivato ha un rilievo icastico molto potente, giacché evidenzia la qualità aspra e refrattaria del tempo controverso che siamo chiamati ad attraversare, ponendosi ossimoricamente in conflitto con la categoria dell’umano fin quasi a desacralizzarne l’essenza e il valore. Contemporaneamente, inteso nell’accezione di “non finito”, il termine sembrerebbe evocare un’ancora possibile realizzabilità e perfettibilità della vicenda umana nel dominio della Storia e della Natura , aprendosi quindi a una sfumatura positiva di speranza.
Scandito in cinque sezioni distinte (corredate da un testo conclusivo), ma non separabili rigidamente le une dalle altre, Ruvido umano si presenta come un carme continuo contrassegnato da uno stile comico (nel senso dantesco), riconoscibile dal peculiare codice linguistico che mescola, come da consuetudine dell’autrice, livelli stilistici diversi: scritti, parlati, teatrali.
Nonostante nel corso del tempo, e delle ultime raccolte poetiche, i versi di Gualtieri abbiano assunto una cadenza e una forma metrico/prosodica più tradizionale e regolata, resta evidente e pronunciata la tinta espressionista di una parola che, ora gridata ora sussurrata, contiene in sé un movimento tellurico costante, come se il dettato poetico fosse un’aratura paziente e al contempo veemente, capace di riportare in superficie versi madidi di significazione, zolle candenti di verità nascoste.
Nella prima sezione che dà il titolo all’intero volume, prevale il compianto di un mondo devastato da guerre, calamità naturali ed epidemiologiche. Un mondo che fatichiamo ormai a riconoscere, regredito a una condizione puerile, bisognoso di attenzione e accudimento come un bimbo che fa fatica a crescere (“Prendevo il mondo / dentro me. Lo pettinavo. / Gli dicevo pianino / stai buono.”). Tutto un mondo sconosciuto, una vita sconosciuta di cui ignoriamo i segnali misteriosi, che ci appaiono invisibili o indecifrabili. Il mare, la vegetazione, le bestie, gli uccelli, il paesaggio, non sono un semplice fondale della vita umana e del suo delirante antropocentrismo, ma gli elementi di un dissidio epocale tra uomo e Natura.
Un mondo rattrappito dal disamore, dal furore umano che spreca il tempo con le sue ossessioni e aporie:
Poiché non c’era tempo c’era la morte / poiché non c’era mai tempo, è allora / che andando non si andava / da nessuna parte e facendo /non si faceva mai capolavoro.
E dunque?
Si può chiedere alle cime / alla potenza delle cime dei cipressi / chiedere una salute di parole. Un manto celeste / di parole e spezzare il tetro / delle sponde guerreggiate / tutto / quel sangue-qualcuno uccide /con le mani bambinelli / piccoli Gesù come si uccidono / bambini.
L’orrore ormai coesiste con il benessere; la pace e la violenza coabitano gli stessi luoghi, rendendoli irreali e sconsacrati, come si evince con effetto di straniamento nei versi in clausola dello stesso testo:
Come nell’infanzia - conigli / presi per le zampe dalla vicina / e il loro tutto corpo sbattuto sulla pietra / dove le sere d’estate / si stava seduti.
Ed è proprio quel “come” - quel banale avverbio/congiunzione - a evidenziare nel testo, anziché una similitudine, un’incrinatura che altera l’armonia e l’equilibrio del Creato. Un dissidio che l’uomo confuso di quest’epoca di spreco e oblio è chiamato, anzi che sia tardi, a convertire, mediante una parola-preghiera, nel miracolo di una scoperta, di una rinnovata comunione con il dominio del sacro e della Natura.
Per spalancare una porta che sembra irrimediabilmente chiusa e ripristinare una connessione umana con il sacro naturale, occorre dunque reinventare una lingua della Natura, fatta di silenzio (e frutto del silenzio), ancora tutta da imparare. Questo è ciò che Gualtieri definisce “Selvatico sacro”, che dà il titolo alla seconda sezione, laddove il “selvatico” si configura come il luogo dell’autentico che ancora sopravvive alla catastrofe; uno “scrigno significante”, contrapposto all’artificialità della Storia umana, emblema concreto di una “vitalità grande” che “pone sotto il cielo la sua legge” e “procede / in quel suo lentissimo innestare /nella terra il cielo sovrabbondante”. Al rumore distruttivo che scava e depaupera con la sua insignificanza il talento umano viene contrapposto il talento costruttivo del silenzio, che porta in sé lo stupore, l’attesa e la forza operosa e rigeneratrice di una vita autentica.
E di silenzio sembrano fatte le sezioni successive, in particolare la sezione centrale del libro (“Felice te”, con evidente ripresa di un verso dantesco), che rappresenta il picco più elevato di questa riflessione poetica sul destino dell’uomo e sulle possibilità che ancora restano all’umano nella vita del Cosmo. Nei testi di questa sezione un’alta elaborazione stilistica produce l’effetto di elevare il discorso riconducendolo allo stesso tempo in una dimensione quotidiana e umile, come se il Sacro dovesse prima sporcarsi e impregnarsi di tutti gli umori della terra per tornare a rivelarsi e a risplendere.
Con un gioco raffinato di ricami e intarsi, a parole comuni ed elementari si intrecciano nei versi sinestesie folgoranti (“sorsate di luce”), enallagi e derivazioni nominali (“spericolavo”; “silenziare”); apostrofi (“La notte ti penso, mare / Adoro te”) e numerose callidae iuncturae ( “galline ore”; “le bambine pecore”; “volanti lupi”). Non è un semplice esercizio di stile, ma una logica del pensiero che, rovesciando la concezione tradizionale della conoscenza e il primato del pensiero sulla realtà, riconosce nello stile, e nella fattispecie nello stile poetico - secondo i principi della Filosofia del linguaggio elaborata da Heidegger - una forza dinamica capace di restituire ordine al caos dominante. Se la verità si rivela nel conflitto, il soggetto stesso, visto come un insieme di forze in conflitto, non può soltanto limitarsi a conoscere gli oggetti della realtà che lo circondano, ma ricavare da essi, rispecchiandoli, le costanti e le leggi della Natura.
La poesia è dunque un modo privilegiato di guardare la realtà, e ancor prima di imparare a vedere, lasciando che le cose si mostrino per quel che sono mediante un procedimento dell’immaginazione che torna a ritroso nei fondali del tempo e di una memoria atavica per riscoprirvi un’antica fratellanza, una coappartenenza dialogante tra l’uomo e le altre specie, arboree e animali, che la modernità con le sue astrazioni ha cancellato sostituendole con i falsi miti del moralismo e di un consumismo sfrenato e alienante. Ripristinando questo modalità di percezione ritorna chiaro che ogni vita, compresa l’esistenza umana, non può che rispecchiarsi nel mondo naturale, in cui fatalmente “principio e fine stanno abbracciati / in un’antica sete battagliata / in dormiveglia assetato”, come opposti interdipendenti in cui ciascuno differisce dall’altro in una lotta che li rafforza vicendevolmente e dove “tutto tace, non dice / il suo nome segreto”. Occorre imparare dunque dalle cose che, apparentemente inermi, ci circondano, offrendoci un’incessante testimonianza di civiltà ancora perseguibile: come le dune, che “divorano ogni nome” ; o il limone “slanciato dentro il cielo / piantato nell’intimo di una voce /che accoglie e sprigiona / incantatorio fiato di foglie” ; o il sovrano, che “sul ramo più alto / dondolando piano /guarda davanti a sé / molto lontano”, forse raggiungendo con lo sguardo “quella preghiera che irraggia dal sole”.
Nel canto XVI dell’Inferno il pellegrino Dante incontra altri fiorentini che, nonostante i tormenti della pena infernale a cui sono sottoposti, non dissimulano la loro preoccupazione sul degrado di Firenze e dei suoi costumi, politici e morali. Dante non si sottrae alla loro domanda e descrive con schiettezza e onestà la corruzione che ormai dilaga nella città svilendone cose e persone. Dopo queste parole del poeta, i tre dannati si guardano stupiti, quindi ringraziano Dante della risposta cortese e sincera: “Felice te se sì parli a tua posta”.
Con la medesima consonanza di voce e di intenti, nella sezione del libro ispirata all’episodio dantesco la poetessa romagnola riformula al termine di una poesia la stessa nostalgica e presaga invocazione:
Felice te, luce. Mondo. Mia matrice.
Comprendere la realtà significa innanzitutto amarla, con sincerità e onestà di sentimento e pensiero. Per contrastarne la corruzione e la degradazione in atto, occorre dunque sottrarsi alle imposizioni e alle ipocrite convenzioni sociali? Restare integri nel proprio valore, sbarazzandosi di credenze e aspettative false; accettare la diversità tra l’io e l’altro, per riconoscere un’origine comune e una sia pur precaria appartenenza, ritrovando così la forza (come le dune) di essere se stessi, accogliendo in sé il mondo nella sua inconciliabile contraddittorietà, nella sua umana, naturale imperfezione?
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