Il tempo interiore. L’arte della visione in Andrej Tarkovskij
- Autore: Filippo Schillaci
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Edizioni Lindau
- Anno di pubblicazione: 2017
C’è il cinema. E poi c’è il cinema di Andrej Tarkovskij. Una declinazione e una videoscopia del tempo. Apologia della forma (dell’immagine), antinomia del cinema fondato sulla convenzione narrativa. Un unicum. Il 29 gennaio 1973 Tarkovskij scrive nel suo diario:
“Non si può più dire che il cinema è fatto di piccole ‘storie’ recitate e filmate. Questo non ha niente a che vedere col cinema. Prima di tutto il film è un’opera, che è impossibile realizzare con qualsiasi altro mezzo artistico. Il cinema è solamente ciò che si può creare con i mezzi cinematografici, e solo con quelli”.
Una manciata di righe per delineare il senso e il suo sentire cinematografici. Ciò che conta non è la narrazione quanto il tempo, e l’asserzione si spiega in questo modo: il cinema è la sola arte in grado di registrare il tempo nelle sue forme di fatto. Come individua Filippo Schillaci in “Il tempo interiore. L’arte della visione in Andrej Tarkovskij” (Lindau, 2017):
“Tarkovskij non è narrativa filmata, è innanzitutto un’arte visiva che si dispiega nel tempo (…) Poi è anche altro: è suono ed è sì, narrazione. Ma innanzi tutto, è musica d’immagini (…) nel ‘pensiero per immagini’, non nella strutturazione drammaturgica (...) si manifesta (…) la personalità creativa dell’autore”.
Saremmo insomma in zona limitrofa all’atto di vedere. Alla sinfonia, alla poesia per visioni. Una concezione plastica dello spazio-tempo cinematografico che – come si evince dall’analisi di Filippo Schillaci – si concretizza nell’uso insistito della panoramica, nella composizione delle immagini per linee oblique, nel ricorso a cromatismi spesso intensi. Tutto questo fino a Stalker. Il 1980 registra infatti l’evidente rimodulazione dei codici linguistici tarkovskijani: nei film successivi il ritmo si rarefà. Così come il colore che sfiora il bianco e nero. Altri esempi: aumenta la lunghezza media delle inquadrature, la carrellata diventa il movimento di macchina dominante, le immagini vengono composte secondo piani frontali e per linee orizzontali o verticali.
In ossequio allo statuto autoriale del regista russo, il saggio (eccellente) di Filippo Schillaci risulta molto tecnico. Una suggestionante diegesi visiva, a restituire la pura forma, il tempo, il silenzio in cui è rappreso e fiammeggia al contempo, lo specifico filmico di Andrej Tarkovskij.
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Sto leggendo il libro di Schillaci e lo trovo anch’io ottimo: rivela un Tarkovskij nuovo attraverso l’esame di aspetti fino a oggi ignorati dalla critica. Ho apprezzato questa bella recensione che giustamente ne mette in luce i pregi; mi trovo in disaccordo su un solo punto: lì dove si dice che si tratta di un libro molto tecnico. Io credo che analizzare la poetica derivante dalla forma cinematografica non significa essere tecnici ma andare al cuore di un cinema altamente poetico quale è quello di Tarkovskij. E l’autore lo fa con un linguaggio piano e accessibile che rende la lettura scorrevole, pur essendo il libro decisamente di alto livello. E’ un libro, insomma, per tutti gli appassionati del buon cinema, non solo per gli specialisti del settore.