L’imperativo categorico è una definizione kantiana, eppure la troviamo di frequente applicata anche al di fuori dall’ambito filosofico. Ormai è stata sdognata, svincolata dalla sua funzione, applicata persino alla letteratura. Pensiamo, ad esempio, al testo di Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, nel quale la gioralista afferma:
Ma vi sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.
La “parola” è l’imperativo categorico nel pensiero di Fallaci, colei che che fu prima di tutto "Scrittore" come testimonia la sua lapide al Cimitero degli allori di Firenze. Nella stessa pagina in cui citava “l’imperativo categorico” inteso come parola ovvero urgenza di dire, di parlare, di non restare in silenzio, Fallaci faceva allusione al suo modo personale di intendere la scrittura: non un divertimento né uno sfogo, perché era ben consapevole che “le cose scritte possono fare un gran bene, ma anche un gran male, guarire e perfino uccidere”. E allora ecco la volontà imperiosa di mettersi seduta di fronte alla macchina da scrivere, pronta a trasformare l’irrefrenabile pianto in urlo e quindi in parola, con la fermezza di chi crede nel potere rivoluzionario delle parole. Due giorni dopo l’11 settembre, ciò che l’autrice definisce come “l’Apocalisse di New York”, l’imperativo categorico di Oriana Fallaci diventa un tuono, ricordando il potere prorompente della scrittura, la legge morale insita nella parola.
Oriana Fallaci ha dato all’imperativo categorico di Kant una forma letteraria, ha reso la regola morale parola scritta legando in un nodo insolubile, inestricabile, filosofia e letteratura. La giornalista e scrittrice affermava di “scrivere per libertà e disobbedienza”; Kant era un filosofo caro a Fallaci, viene ripreso in diversi passaggi dei suoi scritti come tesi su cui fondare le proprie affermazioni, è presente anche in L’apocalisse. Oriana Fallaci intervista sé stessa e ne La forza della ragione in cui addirittura lo smentisce e lo critica giudicando il suo progetto filosofico “demagogico”, in quanto sosteneva che le guerre erano provocate dalle monarchie. Ora, il giudizio di Fallaci su Kant è certo opinabile, così come le sue conseguenze, però la rilettura letteraria che la giornalista fa del concetto di "imperativo categorico" merita una riflessione.
La scrittura è l’azione necessaria a sé stessa, l’autentica legge morale formulata dall’uomo e per l’uomo, come ci dimostrano i grandi libri capaci di forgiare il pensiero: dietro ogni grande religione, dietro ogni ferma e radicata ideologia, c’è un libro o, comunque, una parola scritta, che sia la Bibbia, la Torah, il Corano o un Manifesto politico, pensiamo al Manifesto degli intellettuali fascisti e antifascisti.
Il nodo tra filosofia e letteratura non si vede, ma c’è. Vediamo di scioglierlo questo nodo, scoprendo il reale significato dell’etimologia kantiana e, di seguito, la sua trasfigurazione letteraria.
Cos’è l’imperativo categorico secondo Kant
La prima formulazione kantiana dell’imperativo categorico risale al 1785 ed è contenuta ne La fondazione metafisica dei consumi, ma viene in seguito rielaborata, perfezionata, diventa il fondamento alla base dell’etica kantiana:
Agisci unicamente secondo quella massima, in forza della quale tu puoi volere nello stesso tempo che essa divenga una legge universale.
La teoria morale di Kant si evolve ne La critica della Ragion Pratica in cui il filosofo sviluppa due generi di imperativi: l’imperativo ipotetico e l’imperativo categorico. L’idea fondamentale è che la determinazione delle leggi presupponga l’uso della ragione, allora la volontà è la “ragion pratica”. Il principio oggettivo che è sottomesso al vincolo costrittivo della volontà, che è comunque soggettiva e sottoposta alla contingenza, prende dunque il nome di imperativo: perché un comando della ragione, quindi richiama il modo verbale dell’ordine, dell’esortazione, ciò che impartisce obblighi e doveri. Gli imperativi, secondo Immanuel Kant, sono i nodi che vincolano i rapporti tra ragione e volontà, quindi tra legge oggettiva e legge soggettiva.
Da qui il filosofo ne sviluppa due generi tra loro opposti ma, al contempo, complementari:
- L’imperativo ipotetico, che stabilisce la necessità pratica di un’azione possibile; l’azione viene dunque giudicata “buona” come mezzo per ottenere qualcos’altro.
- L’imperativo categorico, ciò che presenta un’azione come necessaria per sè stessa. Questo imperativo ha fondamento in sé stesso, nell’intenzione, non concerne la materia dell’azione né il suo scopo. Per questo motivo Kant lo definisce anche come imperativo della moralità.
L’imperativo categorico rappresenta il fondamento esclusivo della legge morale, poiché si tratta di un comando universale e necessario che va oltre la forza soggettiva della volontà. Kant osserva che un uomo, per obbedire alla legge morale, deve agire razionalmente, come se la sua azione fosse universale (quindi rispondere alla domanda: questo principio è valido per tutti, oppure solo per me?) ed estenderne le conseguenze dal privato al pubblico; trattare l’uomo sempre come fine e mai come mezzo; infine agire come se la massima della propria ragione potesse divenire un postulato universale.
Agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine e mai semplicemente come un mezzo
L’imperativo categorico e la legge morale
L’imperativo categorico di Kant diventa un metro di misura basilare per tutelare la dignità di ogni essere umano: estendere la propria legge morale all’universale fa sì che nessuno sia più schiavo di nessun altro, proprio perché nessuno vorrebbe essere schiavo. Una azione è positiva, dunque morale, solo se può valere per tutti gli uomini, non solo per una parte di umanità o, addirittura, per un singolo.
L’autonomia del soggetto non può essere svincolata dalla dignità e dal benessere collettivo: la legge morale kantiana, attraverso l’imperativo categorico, postula questa idea.
Il concetto di morale è qualcosa di proprio dell’uomo, che non appartiene all’animale: è la sua più grande forza e, al contempo, la sua massima debolezza, poiché è proprio in questo vincolo che imbriglia ragione e volontà che l’uomo tradisce sé stesso. Legare la morale a un preciso senso del dovere - nei confronti di tutti gli uomini, non del singolo, ma della specie - è stata la grande rivoluzione di Immanuel Kant. L’imperativo categorico racchiude in sé un grande principio di uguaglianza che, a ben vedere, è una delle prerogative essenziali della libertà.
L’imperativo categorico nella letteratura
Talvolta l’imperativo categorico kantiano viene anche chiamato “formula dell’umanità”. Un’idea simile è ripresa anche dall’umanista e filosofo Pico della Mirandola che, nel lontano millequattrocento, affermava che il ruolo dell’uomo non era prestabilito dalla Creazione, ma che spettava all’essere umano in sé farsi modellatore di sé stesso e che in ciò fosse spinto non a degenerare nella bestia, ma a elevarsi verso Dio.
Proprio come Kant, anche Pico della Mirandola focalizzava nella libertà uno dei principi ordinatori dell’uomo, ciò che lo contraddistingueva rispetto a tutti gli altri viventi: la legge morale è una delle conseguenze delle leggi della libertà, del libero arbitrio.
Anche la letteratura stessa, in fondo, è un’espressione unica dell’umano e una conseguenza del libero arbitrio. Si tratta di una soggettività che esprime sé stessa, generando la parola, ma chiede per esistere di avere un pubblico, cioè dei lettori: quindi compie il movimento dell’individuale all’universale, votandosi a una funzione moralizzatrice.
La legge kantiana dell’imperativo categorico può essere applicata all’ambito letterario: se Oriana Fallaci vi coglieva la parola che spezza il silenzio, “l’imperativo categorico cui non ci si può sottrarre”, possiamo intuire in essa anche l’urgenza, la necessità della scrittura come racconto, memoria, testimonianza e tessitura di voci, elemento di condivisione collettiva.
La scrittura emancipa l’uomo dalla pura condizione di essere sensibile ed è, al contempo, un agire che scaturisce dalla piena soggettività.
Applicando l’imperativo categorico di Kant alla letteratura troviamo la legge morale della parola, che concilia in sé le esigenze soggettive e quelle oggettive del linguaggio umano, rispondendo a una duplice necessità, al contempo espressiva e comunicativa. Dunque, “l’imperativo categorico di dire” può essere connesso alla morale: anche la scrittura implica una mediazione tra ragione e volontà, un sottoporre i principi-pensieri soggettivi a un agire universale.
In altri termini potremmo affermare che proprio l’imperativo categorico di dire - ciò che ci spinge a comunicare, in forma parlata o scritta - è anche ciò che ci rende umani. Kant nella sua definizione vi coglieva una sorta di principio unico, una legge della coscienza, a cui si ricollegava (da notare: era la conseguenza, non la causa) la dignità dell’uomo.
Il tentativo di far risplendere all’esterno di sé la propria inderogabile “legge morale”, di trasporre la propria volontà dall’individuale all’universale, è ciò a cui risponde ogni persona che scrive. Si tratta del più consapevole - e indiscriminato - atto di libertà.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cos’è l’imperativo categorico di Kant: dalla filosofia alla letteratura
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La posizione della Fallaci è esattamente l’opposto di quella kantiana. Semplicemente Kant è illuminista, cosmopolita e la ragione umana è universale. La Fallaci è per difendere valori occidentali... Kant elabora una morale senza valori, senza contenuti eteronomi...ma solo con schemi formali...
Non mi dilungo sull’imperativo per un discorso di tecnicismi che avrebbero bisogno di un lungo discorso..mi sono già pentito di questo...
Gentile Antonio,
la ringrazio per la sua osservazione, mi rendo conto allora che il testo dell’articolo risulta poco chiaro. Non era certo mia intenzione giustificare il pensiero di Fallaci in merito all’Islam (che tra l’altro non condivido affatto), quello che mi interessava era il legame tra "imperativo categorico" e parola scritta - come Fallaci lo intende - che infatti tengo a precisare nell’articolo, senza entrare nel merito del testo.
Ho specificato che, sebbene Fallaci citasse spesso Kant, aveva spesso criticato alcuni concetti della sua filosofia. Spero ora sia più chiaro il tutto; era il legame tra imperativo categorico e parola che il nodo tra letteratura e filosofia, non il concetto espresso ne "La rabbia e l’orgoglio", che infatti nel mio articolo non è trattato.
Kant è Kant: “Chapeau”! Ma non tutti sono d’accordo con lui. Ed in particolare un filosofo dinamitardo, un certo Nietzsche, il quale, nei suoi due capolavori, Al di là del bene e del male e Genealogia della morale, afferma che in generale quelli che lo hanno preceduto, compreso Kant con il suo imperativo categorico, hanno commesso un errore di fondo: hanno dato per scontata l’esistenza di una morale valevole per tutti; pochi hanno messo in discussione “la morale”. Nietzsche al contrario è convinto, e lo dimostra ampiamente, che tutte le morali nascano da precise volontà che sono umane e non divine. L’uomo che nel corso dei secoli ha inteso garantirsi alcuni privilegi ha fondato ed imposto dei valori morali spacciandoli per assoluti ed eterni. La morale invece, in ogni epoca, è stata un’invenzione delle classi dominanti che di essa si sono servite per tenere sottomesse le classi più deboli. Secondo il Filosofo tedesco bisogna rifiutare tutte le morali così nate e FONDARE UNA NUOVA ETICA ANCHE SENZA IL “BENE IN SÉ” DI PLATONE, CIOE’ ANCHE SENZA LA MAGICA PRESENZA DI UN DIO: È POSSIBILE PENSARE AD UN UOMO CHE AUTONOMAMENTE, SENZA CONDIZIONAMENTI ESTERNI, LAICAMENTE, TRACCIA UN SUO NUOVO DESTINO DOPO AVER CREATO AUTONOMAMENTE DEI NUOVI VALORI.