Giovanissima, classe 1995, Beatrice Salvioni è autrice del caso letterario dell’anno: La Malnata (Einaudi, 2023), edito in contemporanea in otto paesi e tradotto in trentadue lingue. Un vero e proprio libro rivelazione, pubblicato in Italia nel mese di marzo 2023 e ora arrivato oltreoceano, persino negli Stati Uniti e in Giappone.
Dietro questo esordio dei record si nasconde una ragazza semplice, niente affatto altezzosa, ma dalle idee molto chiare. Parlando con Beatrice Salvioni non si può fare a meno di restare colpiti dal suo acume e dalla sua maturità, caratteristiche che la rendono una giovane promessa della narrativa italiana, destinata sicuramente a sorprenderci.
Laureata in Filologia moderna con una tesi sullo storytelling interattivo, Beatrice Salvioni si è specializzata in “Scrittura” presso la Scuola Holden di Torino e ha vinto l’edizione 2021 della sezione “racconti inediti” del premio Calvino con Il volo notturno delle lingue mozzate.
Appena due anni dopo arriva nelle librerie mondiali con La Malnata, un romanzo a cui in realtà stava lavorando da tempo. Il libro narra, in estrema sintesi, l’amicizia contrastata tra due ragazzine nell’Italia Fascista: una di loro, Maddalena, è detta la “Malnata” perché si dice che porti sfortuna e sia meglio starle alla larga. Tra le pagine della storia, che si apre con un folgorante flashforward, troviamo molto di più: la descrizione di un mondo ipocrita, ancorato a vecchie convinzioni e false apparenze, e il loro progressivo sovvertimento grazie all’audacia di due ragazze che, tra mille ostacoli, hanno il coraggio di trovare sé stesse e far udire la propria voce.
Come nasce una scrittrice? Ne abbiamo parlato con Beatrice Salvioni in questa intervista.
- Iniziamo col dire che hai creato un personaggio straordinario, dirompente. la “Malnata”. È da lei che si irradia la forza, l’energia sovversiva, che dà linfa alla storia. In che modo è nato questo personaggio e qual è il suo ruolo?
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Maddalena, la “Malnata”, diventa il personaggio catalizzatore. Senza di lei sicuramente Francesca, che è la voce narrante, non avrebbe mai iniziato il suo arco di trasformazione. Però diciamo che loro, lei e Francesca, sono inscindibili l’una dall’altra, proprio perché sono necessarie l’una all’altra. Francesca riesce a far capire a Maddalena di non essere sola e, al contempo, proprio a lei confessa ciò che non ha mai detto a nessuno.
Maddalena La “Malnata”, poi, è un personaggio a sé, nel senso che fa parte di tutti quei personaggi che mi hanno sempre affascinato nella letteratura, quelli che sono stati esclusi, ostracizzati, marginalizzati, solo per un comportamento sbagliato, come La Lupa di Giovanni Verga o per il loro aspetto fisico, come Rosso Malpelo, sempre di Verga.
Mi sono sempre piaciuti i personaggi così, perché mi sembrano speciali. In qualche modo quella società che li ha esclusi la vedono con maggior chiarezza e riescono a capire le cose che gli altri, proprio perché hanno paura del giudizio, non riescono a vedere.
- Hai raccontato che Maddalena, la “Malnata”, e Francesca erano in parte già presenti nei racconti che scrivevi sin da bambina. In quale personaggio ti identifichi di più?
Diciamo che sono diventata un ibrido, a poco a poco. Da ragazzina sono stata molto più Francesca, quindi con la costante paura, il dovere imposto di dover essere “la brava ragazza” a tutti i costi. Credo però che per ciascuno di noi arrivi una fase della vita in cui incontriamo la “nostra Malnata”, che può essere una persona, un ambiente, una compagnia, una storia o anche un libro ed è così che si cambia. Ho imparato anch’io a essere “Malnata”. E ora forse sono diventata un ibrido tra tutti e due i personaggi.
- Io credo che La Malnata sin dal titolo in fondo proponga una sfida al pregiudizio. Le tue protagoniste insieme sgretolano l’ipocrisia del pensiero borghese, mostrano la verità dietro le belle apparenze. Dietro la figura della Malnata si nasconde un desiderio molto attuale: quello di dire finalmente “le cose come stanno”, non è così?
Penso che questo accada sempre quando adotti il punto di vista di una ragazzina o di un ragazzino. Questo genere di personaggio ha la capacità di confrontarsi con il mondo adulto che è incarcerato in certe dinamiche da cui non riesce più a uscire, come ad esempio il pensiero del “si è sempre fatto così”, una sorta di comodità. Ovviamente poi il mio romanzo è ambientato nell’epoca del fascismo e quindi questo fatto è ancora più estremizzato: l’essere in una sorta di palude di consenso, il fatto di abbassare la testa, non farsi troppe domande, il fatto di adeguarsi anche se non si è d’accordo. Questo sentimento è ben rappresentato dal padre di Francesca, il tipico “uomo senza qualità”, che non è un fervente fascista però si adegua pur di mantenere i suoi affari, vendere bene i suoi cappelli.
Credo che questo rovesciamento in generale, questa sfida sia sempre ricorrente nelle storie narrate dal punto di vista di una persona giovane che si confronta con un mondo di adulti che non vuole cambiare ed è un po’ una statua di sale delle proprie convinzioni e si accorge, però, di volere una realtà diversa. I giovani hanno quindi la funzione di “svegliare” quei grandi che hanno sempre inculcato una mentalità di un certo tipo, che tuttavia ormai si sente che è stanca o, comunque, stantia.
- Il tuo romanzo è stato spesso paragonato a L’amica geniale di Elena Ferrante; ma secondo me chi ha fatto il paragone non l’ha capito davvero. Quello che si sviluppa tra Francesca e Maddalena è un rapporto molto diverso, meno simbiotico, privo di competizione e invidia reciproca. Inoltre non nasce nell’infanzia, ma nella pre-adolescenza. Tu come volevi che fosse letta la loro relazione?
Innanzitutto partiamo col dire che il paragone con Elena Ferrante mi schiaccia. Io sono arrivata ora, con il mio primo romanzo, non posso essere paragonata a lei, anche se spesso si tende a fare queste cose per ragioni di marketing. Mi piace molto Ferrante, la ammiro tantissimo e proprio per questo penso che sia un paragone che vada a mio sfavore. In ogni caso, si tratta di una storia diversa, anche il rapporto tra Maddalena e Francesca è diverso da quello tra Lila e Lenù. Mi interessava che non ci fosse competizione tra loro, che fosse un rapporto a pari merito.
Manca del tutto la volontà di superare l’altra e io credo che questo invece si trovi spessissimo nelle storie di amicizia al femminile: il voler esser al posto dell’altra, migliore dell’altra o magari il competere con l’altra per ottenere un uomo. Invece io volevo far emergere il concetto di alleanza, di “sorellanza”.
- Mi ha colpito la riflessione che intessi sulla diversa manifestazione della violenza: quella maschile è eclatante, fatta di botte e pugni, di sangue e urla, mentre quella femminile è sussurrata e in un certo senso più subdola. Di questi tempi viene fatta notare molto poco la violenza femminile, ma non per questo è meno pericolosa o insidiosa, non credi?
Mia madre mi diceva sempre una cosa, quando ero più piccola: di stare attenta anche alla cattiveria delle femmine che magari ti fanno una faccia carina davanti, ma poi ti pugnalano alle spalle. Da una parte è un pregiudizio, il fatto che ci sia un tipo di violenza diversa, dall’altro però è così: il bullismo maschile e il bullismo femminile, soprattutto in ambito scolastico, sono diversi.
Un gruppo di femmine ricorre più a una violenza sociale, meno esplicita, è una condanna all’isolamento, un insieme di piccole cattiverie fatte di nascosto. Ma in qualche modo credo che il microcosmo scolastico rifletta il mondo al di fuori. E, in un certo senso, quando nel romanzo Francesca cede e ascolta le maldicenze delle compagne di scuola, tradendo l’amicizia con Maddalena, riflette il mondo fascista all’esterno: ascolta la voce della folla, rinnegando sé stessa, la propria persona.
- Sullo sfondo della storia - ma non troppo - troviamo appunto l’Italia fascista e una guerra lontana in Etiopia, che sembra una sinistra parodia del presente. A volte ambientare un libro nel passato è più efficace di una distopia?
Quando ho pensato a ciò che volevo raccontare nella mia mente c’era innanzitutto il rapporto tra le due ragazze e poi l’importanza di trovare la propria voce. Quindi qual era l’epoca storica che potesse creare più difficoltà alle protagoniste? Mi è venuto naturale pensare al Fascismo che è il perfetto contraltare al desiderio di due ragazzine di farsi sentire in un mondo che non ha nessuna intenzione di ascoltarle.
Poi quando ambienti una storia nel passato, proprio perché la distacchi dall’oggi e dunque la guardi in lontananza, vedi tutto in maniera più nitida e le somiglianze con l’oggi risaltano ancora di più.
- La città di Monza e il fiume Lambro sono i co-protagonisti della storia. Strano che tu non abbia scelto una grande città, come Milano o Roma. Nella scelta di Monza è entrata in gioco una sorta di geografia interiore?
Sono nata e cresciuta a Monza, quindi la conosco molto bene e tutti i percorsi di Francesca sono gli stessi che ho fatto anch’io alla sua età. Quindi ho applicato quella che è stata la cartografia della mia infanzia all’adolescenza di Francesca. Poi mi serviva come sfondo della storia una città piccolina, provinciale, una dimensione in cui tutti si conoscono, le voci corrono e per questi motivi Monza, al contrario delle grandi città metropolitane, era perfetta come ambientazione.
- Nel libro, attraverso il personaggio di Francesca, metti in luce un sentimento comune nell’adolescenza, eppure innominabile: “la vergogna”. Penso che nessuno sia mai riuscito a dirlo così bene. In una sola frase, così esatta, precisa, hai tradotto un sentimento che forse tutte abbiamo provato ma non siamo mai riuscite a esprimere, nemmeno a concepire con esattezza nel momento stesso in cui lo provavamo. Scrivi “Mi sentivo addosso il rimorso di crescere”. Ecco, per te cos’è questo rimorso di crescere?
È il traumatico momento in cui ti accorgi di abitare il tuo corpo. Quando sei bambino o bambina ti importa solo uscire a giocare con gli amici, di fare gare e non ti rendi conto del peso che ha il tuo corpo e, soprattutto, del peso che hanno gli sguardi degli altri sul tuo corpo. Ed è quello l’istante in cui ti accorgi che devi cominciare a incasellarti nelle aspettative che la gente ha su di te solo perché sei nata in un certo corpo, maschile o femminile. Le possibilità illimitate dell’infanzia all’improvviso sono finite e tu devi fare i conti con questo ridimensionamento.
- I personaggi del libro sono spesso costruiti in maniera complementare, come lo yin e lo yang. Uno dei più complessi è il personaggio della madre di Francesca. Viene spesso giudicata come “cattiva”, in realtà credo sia molto interessante il suo punto di vista perché è una donna forte. Mi è piaciuto soprattutto come narri il tradimento, si capisce che c’è, ma non viene detto mai esplicitamente, un po’ come “La sventurata rispose”?
Spesso viene vista come la “cattiva” della storia perché ossessiona Francesca con l’educazione, il comportarsi bene, eppure lei fa tutt’altro. In realtà è un personaggio molto tragico, perché è come se incolpasse Francesca dei suoi sogni non realizzati. Desiderava una vita che non ha potuto avere, voleva diventare qualcuno e non ci è riuscita, quindi in fondo è piena di rimorsi, di dolore. Se ci pensi anche lei ha una sorta di ribellione, di certo non è la donna ideale del regime “moglie-madre-massaia”; lei invece si cuce un vestito rosso, si trucca, si pettina come le dive del cinematografo. La sua attenzione per la propria estetica è la sua forma di ribellione, che però ovviamente rivolge solo verso sé stessa. Quindi sì, di sicuro è un personaggio complesso.
- Adesso parliamo di te. Sei giovanissima e hai esordito, in contemporanea in otto paesi, con un libro ora tradotto in trentadue lingue che è già il caso editoriale dell’anno. Insomma, un successo davvero clamoroso (e invidiabile). Ho provato a mettermi nei tuoi panni pensando che dev’essere stato bellissimo, ma deve averti procurato anche molta ansia. Tu come l’hai vissuto? Come nasce una scrittrice?
Diciamo che sono tuttora terrorizzata e, sì, non mi sento all’altezza. Speravo sempre di trovare qualcuno che volesse credere in questa storia e prendersene cura, poi ho avuto la fortuna di incontrare la mia agente, Carmen Prestia, che ha fatto questo miracolo alla Fiera di Francoforte riuscendo a far interessare gli editori stranieri al mio libro. È successa una cosa dietro l’altra, del tutto fuori dal mio controllo ed è stato inaspettato. In fondo, forse non ho ancora realizzato del tutto. Ecco, ad esempio in Giappone ancora non mi hanno invitato, ma spero proprio di andarci.
Quanto all’essere scrittrice, l’unica cosa di cui sono certa è che ho bisogno di scrivere, di inventare storie, credo che proprio non c’è nient’altro che io possa fare. Quindi spero di poter continuare a farlo.
- Hai anticipato - i lettori ancora non lo sanno, ma ormai si possono fare spoiler - che ci sarà un seguito de La Malnata. Del resto, il libro terminava lasciandolo presagire. Puoi dirci qualcosa del nuovo romanzo che stai scrivendo?
A me piacciono molto i finali aperti, perché ti lasciano domande non risolte ed è quello che, secondo me, permette alla storia di rimanere dentro la testa pure a lettura conclusa. In realtà, il libro avrebbe anche potuto finire così e basta, con Francesca che compie una scelta. È passato molto tempo da quando ho finito la prima revisione del romanzo e nel frattempo ho scritto altre storie, con altri personaggi, altri mondi, e poi ho capito che dovevo tornare a Francesca e Maddalena. La nuova storia è ambientata dal 1940-45, sono passati alcuni anni dalla fine e quindi le ritroviamo cresciute.
Vedremo, ora sto scrivendo, chissà...
- Per chiudere un’ultima domanda a cui solo tu puoi dare una risposta: cosa significa essere “Malnate”?
Quando chiamano Maddalena “Malnata” è un insulto, una parola cattiva. La chiamano “Malnata” per dire che lei è condannata sin dalla nascita a portare sfortuna, a essere maledetta, a non avere un futuro. Mentre la parola Malnata, essere Malnati oggi, può essere risemantizzata e diventa una cosa da portare con orgoglio. Anche Maddalena impara a portare con orgoglio questo suo essere “Malnata”. Molte parole che venivano usate come insulti sono diventate motivo d’orgoglio, come la parola queer. Ed essere Malnati oggi vuol dire un po’ questo, quindi adesso è una cosa di cui essere fieri: vuol dire alzare la voce per le cose che contano, continuare a lottare per le cose importanti, vuol dire anche ballare come le ragazze in Iran che hanno ballato senza velo. Questo vuol dire “essere Malnati”.
Recensione del libro
La Malnata
di Beatrice Salvioni
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Beatrice Salvioni, autrice del caso letterario dell’anno “La Malnata”
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