Donatella Di Pietrantonio, Premio Strega 2024
“Non esiste un’età senza paura” ci dice Donatella Di Pietrantonio nel libro che l’ha incoronata vincitrice del Premio Strega 2024: L’età fragile, edito da Einaudi.
Sette anni dopo la vittoria del Premio Campiello con L’Arminuta, Di Pietrantonio ha conquistato anche il maggior premio letterario italiano: lei che, a lungo, ha avuto quasi timore all’idea di definirsi “scrittrice”, si è sempre sentita un’outsider nel mondo letterario, e lo confessa con un tono pacato e con l’umiltà di chi non è abituato a stare troppo al centro dell’attenzione.
Ne L’età fragile troviamo condensati tutti i temi chiave della narrativa di Di Pietrantonio, la voce ormai sicura di una scrittrice che è uscita dall’ombra e ha acquisito un proprio stile personalissimo, una scrittura scarna, dura, eppure malinconica, che la identifica in maniera inconfondibile.
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Aveva esordito nel 2011 con un romanzo, Mia madre è un fiume (edito da Elliot), che già si incideva come una lacerazione nella mente dei lettori, ponendo nell’incipit la parola inaudita: “malattia”, presentata con una sincerità quasi violenta, senza ulteriori manierismi “Certi giorni la malattia si mangia anche i sentimenti”.
Di Pietrantonio si presentava ai lettori con una scrittura affilata come un coltello, che è ancora il suo segno distintivo, la maniera in cui immerge il lettore nella dimensione umana della storia. In quel suo primo libro l’autrice abruzzese parlava dell’Alzheimer, la malattia che aveva colpito la madre: la voce narrante era quella di una figlia che ricuciva la storia materna riannodando i fili della memoria. Ne L’età fragile ritornano i ruoli ma a parti invertite, stavolta la voce narrante è quella di una madre, Lucia, che cerca di ricostruire una figlia spezzata da un trauma di cui non vuole parlare. L’esergo del romanzo presenta una citazione tratta da Una morte dolcissima di Simone de Beauvoir, il libro che la scrittrice e filosofa francese dedicò alla malattia e alla morte della madre: non si tratta di un caso, il tema è il filo conduttore dei libri dell’autrice ma anche, forse, l’origine inconscia della sua scrittura.
Ancora una volta, nelle sue pagine, Donatella Di Pietrantonio ci racconta della fragilità e del coraggio degli esseri umani, di maternità e abbandono, di madri e figlie, della terra scabra e dura d’Abruzzo, di boschi fatti di luci e ombre, di violenze silenziose e altre, invece, manifeste. A fare da sfondo alla trama de L’età fragile c’è infatti una storia vera, un caso di cronaca nera meglio noto come il “Delitto del Morrone” del quale tra pochi giorni, il 20 agosto, ricorre l’anniversario.
Oggi lo chiameremmo “femminicidio”, ma all’epoca non c’erano le parole per dirlo: Donatella Di Pietrantonio le ha trovate e, a distanza di quasi trent’anni dai fatti, ci racconta una storia che parla al presente e non al passato, indicando che la “violenza sulle donne” è in ogni tempo e che, in fondo, siamo tutte delle sopravvissute.
L’età fragile è dedicato proprio a “tutte le sopravvissute” e parla di una violenza che spesso agisce anche in maniera invisibile.
Ne abbiamo parlato in questa intervista.
- L’età fragile è un romanzo nel romanzo. Inizia come una storia familiare sulla difficile relazione tra madre e figlia, ma ben presto diventa un thriller grazie alla rievocazione di un fatto di cronaca reale avvenuto nell’agosto del 1997, il delitto del Morrone, un duplice femminicidio. È stato il ricordo di questo fatto a dare origine al libro?
Mi sono ricordata di quel terribile episodio di cronaca e mi sono stupita anche di non averci più pensato per tanto tempo. Ho cominciato a ricostruirlo nella mia memoria, cercando anche documenti dell’epoca negli archivi, gli articoli sui giornali. In breve tempo è diventata una sorta di ossessione. Per me è stato importante aver incontrato fisicamente e aver poi parlato molte volte al telefono con la Pm, Aura Scarsella, che all’epoca aveva seguito il caso. Credo sia stato importante anche per lei poter riaprire il caso emotivamente, dopo che ci si era applicata a lungo dal punto di vista professionale.
È stata un’esperienza trasformativa per entrambe da questo punto di vista.
- Oggi abbiamo un nome per definire il delitto del Morrone: “femminicidio”, una parola che nel 1997 non esisteva ancora. Ora, finalmente, abbiamo le parole per dirlo?
Volevo rinominare con le parole e con la sensibilità dell’oggi quello che all’epoca era stato un episodio terribile, ma presto dimenticato. Forse non si era parlato abbastanza del fatto che quelle ragazze erano state uccise in quanto donne - e non per caso. Letterariamente volevo dare giustizia a qualcosa cui, al momento, non era stata data la giusta attenzione.
- Nel testo il delitto del Morrone è fortemente rivisitato, il romanzo non pretende di essere cronaca del fatto reale. Nel libro a salvarsi non è una delle due sorelle, ma la terza ragazza, l’amica. È stata una scelta voluta?
Nella costruzione dei personaggi tutto è stato una scelta. Io volevo che la sopravvissuta fosse una ragazza del luogo, perché volevo indagare le dinamiche che riguardano la piccola comunità locale e come viene sconvolta, cambiata da un duplice femminicidio che sporca di sangue questo bosco che era considerato - come dice la voce narrante - il “posto delle fragole”.
- La riflessione sul male compiuta nelle pagine contempla molte sfumature. Viene mostrato il vero volto dell’assassino: non un mostro, ma un pastore ignorante, un ragazzo che, a forza di stare solo con gli animali, si era imbestialito anche lui. Non è un tentativo di giustificare, ma di comprendere? Viviamo in una società abituata a condannare senza appello, la letteratura dovrebbe aiutarci a sviluppare un senso di pietas?
Assolutamente sì. Quello che intendevo fare nel libro - e sono contenta che lei lo abbia notato - è stata riportare quella che secondo me è stata, anche nella realtà di allora, la costruzione sociale di quel delitto e la costruzione collettiva di un assassino. Questo ragazzo era appunto un servo pastore, tenuto in condizioni di totale isolamento e anche di quasi schiavitù. Era un giovane, quasi coetaneo delle sue vittime, che viveva in simbiosi con gli animali che accudiva, ed era veramente uscito dal consesso umano. Aveva superato il confine tra umano e non umano. Quando si è trovato in presenza di queste ragazze ha ascoltato solo il suo istinto.
- Il libro è dedicato “A tutte le sopravvissute”, rimarcando un forte legame con la nostra attualità connotata da una nuova resilienza femminile. Alle donne e ai loro diritti ha dedicato anche la vittoria del Premio Strega. Chi sono, per lei, le “sopravvissute”?
Mi riferisco in particolare alle sopravvissute ai grandi traumi e alle violenze, però in generale tutte le donne sono delle sopravvissute, perché anche oggi la vita delle donne non è per niente facile. Anche quando non c’è un trauma forte, come quello narrato nel libro, in fondo tutte noi, ogni giorno, sopravviviamo.
- Oggi le donne che scrivono sono spesso bersaglio delle critiche maschili, la scrittura delle donne o la scrittura femminile viene denigrata, svilita. A lei è capitato di sentirsi al centro di queste accuse?
Il momento non è particolarmente favorevole. Quando alcune donne scrittrici, me compresa, occupano dei posti alti nelle classifiche delle vendite questo viene subito notato, additato, a volte in maniera veramente scomposta. Me ne sono accorta nel momento in cui sono diventata più visibile, quando si vince un premio così importante si rischia di diventare un bersaglio. Sono stata attaccata prima come vincitrice, poi come scrittrice, mi si è rimproverato persino di non usare il punto e virgola. Credo sia una conseguenza della popolarità, ma non la prendo sul personale. Lo noto, questo sì, come un segno dei tempi in cui viviamo.
- Il tema della maternità ritorna spesso nei suoi romanzi, a partire dal suo esordio Mia madre è un fiume (Elliot, 2011). Ne L’Arminuta aveva raccontato soprattutto il significato di “essere figlia”, in questo romanzo invece è il punto di vista della madre a essere predominante. A un certo punto Lucia dice a proposito della figlia “Mi pesa, la amo”. È in questo difficile equilibrio il significato di “essere madri”?
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Sono contenta che abbia isolato questa frase che per me è importante e anche rappresentativa dell’ambivalenza che riguarda tutti i legami umani, tutti i sentimenti, quindi anche la maternità. Intanto apprezzo che lei abbia notato questo cambio di prospettiva e di punto di vista: le mie voci narranti sono sempre state quelle di figlie adulte che parlavano del loro rapporto del materno, in qualche modo recriminavano contro le madri. Qui invece il punto di vista è inverso: c’è una madre di mezza età che si rapporta con questa figlia difficile, interrotta, che non la ascolta, non le parla. Anche il nome della figlia non è scelto a caso: Amanda è la perifrastica passiva latina, vuol dire deve “essere amata”. È facile amare i figli che danno tutte le soddisfazioni ai genitori, è difficile amarli quando inciampano, quando sbagliano e non sono disposti a incarnare le nostre proiezioni. Quindi da una parte c’è l’amore, dall’altra la responsabilità della condizione di madre.
- Al principio si ha la sensazione che “L’età fragile” del titolo sia quella di Amanda, la figlia; invece, avanzando nella lettura, ci si sorprende nello scoprire delle insicurezze profonde, delle crepe, anche in Lucia, la madre.
Le due protagoniste vengono inizialmente presentate in contrapposizione, “gufo e allodola”, infine si rivelano simili nelle loro intrinseche fragilità.
Giovinezza o vecchiaia: qual è la vera “Età fragile”?
Sarebbe bello poter dare una risposta univoca, ma invece lo sappiamo che purtroppo qualsiasi età della vita è esposta alla fragilità, dipende da quello che ci capita e dipende anche da noi, dalla nostra personalità. Io, per esempio, sono sempre stata una persona molto tormentata, ipersensibile, quindi se mi guardo indietro - dai sessantadue anni che ho ora - tutte le mie età sono state fragili. In ogni fase della mia vita mi sono sentita vulnerabile, scoperta, fragile, per l’appunto. Ci sono cose poi che con l’avanzare dell’età si vivono diversamente, adesso so che, di fronte a certi dolori, posso sopravvivere.
- Il ritorno e la fuga. Nel libro mette in luce una cosa molto vera: tutti i giovani vogliono partire, ma non è detto che, fuggendo, trovino quello che stanno cercando. Già ne L’Arminuta, letteralmente “La ritornata”, metteva in evidenza questa crisi insita nel ritorno. Ci vuole più coraggio a partire o a ritornare?
Credo che ci voglia coraggio in entrambi i casi. Ci vuole coraggio a partire, lasciare il noto per l’ignoto, andare in un luogo dove tutto è da costruire; anche per tornare, però, serve coraggio, perché si tratta di ricongiungersi con la propria origine da cui comunque si era scelto di fuggire. Tornare significa comunque ricominciare daccapo, perché non si ritrova mai tutto uguale a prima. Quindi qualsiasi scelta si faccia richiede coraggio.
- L’Abruzzo, la sua terra natale, torna come una costante nei suoi romanzi: dagli Appennini al mare. In questo caso, però, la montagna del Dente di Lupo prende la forma di un’eredità respinta. A volte è più difficile accettare quello che si conosce bene di quello che non si conosce. Quanto può essere difficile abitare le proprie radici?
L’eredità che riceviamo, non solo l’eredità concreta in termini di beni o possedimenti, ma anche l’eredità più generale che passa da una generazione all’altra, non è solo un dono è anche un fardello, un peso, qualcosa che ci lega a una radice che noi non abbiamo scelto né voluto. Quindi non è detto che l’eredità sia gradita. Questo volevo intendere con la resistenza di Lucia, per lei il terreno rappresenta quel mondo originario, contadino, da cui ha cercato di emanciparsi. Accettare l’eredità significa riannodare qualche filo che lei aveva scelto di recidere.
- L’abbandono è come leitmotiv nella sua narrativa. In Borgo Sud scrive: “C’era qualcosa in me che chiamava gli abbandoni”. La scrittura è un tentativo di curare la ferita dell’abbandono?
La scrittura può esprimerlo l’abbandono, ma non lo può curare. È un tema ricorrente nei miei libri, ma anche nella mia vita in fondo. Penso che già riconoscere una ferita, conoscerla, guardarla, forse già quello è un tentativo di cura. Chi ha la “ferita dell’abbandono”, paradossalmente, proprio l’unica cosa da cui non verrà mai abbandonato è l’abbandono. Ecco cosa volevo intendere con quella frase in Borgo Sud.
- Ha raccontato di aver iniziato a scrivere a nove anni, tuttavia di non sentirsi ancora una scrittrice. Ricorda Annie Ernaux che sostiene di vedere la scrittura come un “tradimento” delle sue origini. Cosa ha significato per lei vincere il Premio Strega?
Un premio così importante è un rinforzo decisivo per me, avendo appunto una provenienza così distante dal mondo della letteratura, ho sempre fatto fatica a sentirmi accolta. Mi sono sempre sentita un po’ un’intrusa, a volte anche un’impostora. Il Premio Strega è una sorta di certificazione, mi dice: “Sì, tu sei una scrittrice, hai diritto di cittadinanza in questo mondo”.
Alla scrittura mi sono avvicinata con una sorta di circospezione, quasi di timore.
- In un’intervista precedente ha detto: “Sono sempre stata una ribelle, volevo essere Jo March”. Ce l’ha fatta?
Era il personaggio con cui mi identificavo da ragazza, in qualche modo penso di esserci riuscita a “essere Jo March”, ma credo che oggi lei non sia più il mio modello. Jo March è stata un’eroina funzionale nella parte della mia vita in cui dovevo recidere lacci e legami con il mondo originario. Lei è stata a lungo una “me possibile” in cui proiettarmi. Credo che nella vita si cambi continuamente, in questo momento, ad esempio, non so cosa scriverò in futuro.
Recensione del libro
L’età fragile
di Donatella Di Pietrantonio
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Donatella Di Pietrantonio, vincitrice del Premio Strega 2024
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