Nel suo ultimo libro La casa del mago (Ponte alle Grazie, 2023), Emanuele Trevi tenta una sorta di esperimento ibrido tra letteratura e psicoanalisi consegnandoci un’opera dal significato enigmatico - quasi apotropaico - che sembra porci nel mezzo di una verità.
La casa del mago è dedicato alla memoria del padre, lo psicoanalista Mario Trevi, e pare proseguire il lungo “dialogo con i morti” che caratterizza la narrativa dello scrittore romano: da Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2012), in cui Trevi rievocava le figure di Pasolini e Laura Betti, a Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2019), con il ricordo di Arturo Patten, Cesare Garboli e Amelia Rosselli sino al Premio Strega Due vite (Neri Pozza, 2021) in cui venivano ritratte in parallelo le esistenze degli amici scrittori Rocco Carbone e Pia Pera.
Ma in verità è con i vivi, con i lettori, che Trevi intesse il suo dialogo e, leggendolo, viene il sospetto che il Mago evocato nel titolo non sia tanto suo padre, noto psicoanalista junghiano e grande “curatore d’anime”, ma lui, che invece compie il suo sortilegio con il potere magmatico delle parole sfregandole tra loro come pietre levigate sino a generare significati inattesi e rivelatori.
Qual è il legame tra memoria e scrittura? Si comprende mai veramente un padre? Quanto conta il potere dell’inconscio nelle nostre vite?
Ne abbiamo parlato con Emanuele Trevi in questa intervista.
- In Qualcosa di scritto, pubblicato nel 2012, sosteneva che la letteratura deve essere intesa come un “grande esperimento sui limiti dell’umano”. Scriveva: “dovrebbe essere questo, un detonatore, una catastrofe che genera cambiamenti irreversibili nella vita. Un fattore di squilibrio”. È ancora d’accordo con questa concezione? Qual è l’idea di letteratura di Emanuele Trevi?
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Per me un’opera intesa nel senso complessivo, non dico tanto come scrittore ma come lettore, è un percorso intellettivo in cui si sente fin dove si è spinta una persona, cosa è riuscita non tanto a “pensare” e “concepire”, ma ad esprimere. Per me l’idea del “limite” è molto produttiva, perché è un limite che si sposta sempre in avanti in qualche maniera. Non mi interessa fare romanzi intesi come “prodotti”, scrivere libri come idea di carriera.
Poi diciamo che il tempo stesso in cui siamo immersi è una catastrofe, per cui ci pone dei problemi nuovi e questi stessi problemi ci portano a scontrarci con i nostri limiti, come l’idea dell’invecchiare o della mortalità. Come scrittore non mi interessa un’idea di scrittura che sia svincolata dalle circostanze dell’esistenza.
- Si ha l’impressione che in tutti i suoi libri lei cerchi di varcare un confine, quello che separa i vivi dai morti. Non a caso lei è spesso definito uno “scrittore di morti”, però secondo me è con i vivi che dialoga. Pensa che la scrittura sia lo strumento adatto per varcare questo confine, questa soglia invisibile tra vita e morte?
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La morte sta alla vita, diceva Pasolini, come il montaggio sta al girato di un film. È un senso che si crea a ritroso. Certamente i personaggi morti sono più maneggevoli per farne un ritratto; però la morte non è una prerogativa necessaria dal punto di vista narrativo, penso ad esempio a Limonov di Carrère.
Io penso una cosa: non c’è il punto di vista del morto, così come non c’è il punto di vista dell’animale. La letteratura ha questa caratteristica essenziale: può solo scrivere il punto di vista dell’uomo vivo. Quando facciamo parlare un morto o un animale è un vivo travestito, un uomo travestito.
La letteratura ha a che fare con l’essere vivi. Dei morti si dice una cosa sbagliata, non è vero che i “morti ci parlano”, sono i vivi a dare loro parola, a immaginare quello che loro direbbero.
- Ne La casa del mago descrive suo padre, lo psicoanalista Mario Trevi, come un uomo “difficile, misterioso, saturnino”, ma anche come un “cubo di Rubik sorridente”. Pensa di essere riuscito ad afferrare qualcosa in più di lui scrivendo questo libro? Ma la vera domanda è: si comprende mai davvero un padre?
In lui c’era anche un tratto di simpatia umana. Di solito le persone così solitarie sono antipatiche, lui no. Questo artisticamente mi ha molto ispirato, perché quando noi catturiamo due elementi contraddittori tra loro questo fa luce alla persona. La scrittura è come il chiaroscuro sta al disegno, crea profondità. Tutte le grandi arti, penso anche alla pittura o alla musica, si fondano su delle contraddizioni.
Quanto al fatto di averlo compreso: non credo che l’amore sia conoscenza. O meglio, non credo che l’amore abbia a che vedere con una conoscenza quantomeno esaustiva. Ha a che vedere con l’accettazione dell’altro in quanto mistero, perché non ci rilascia le informazioni necessarie a farne un giudizio oggettivo.
L’amore non è appropriarsi del segreto di una persona. Quindi io posso dire di aver amato molto mio padre, ma di non averlo conosciuto. Poi mio padre era inconoscibile, su questo non c’è dubbio.
- La casa del mago ha un impianto molto psicologico, direi quasi junghiano. Possiamo cogliere nell’immagine della “casa” una rappresentazione della coscienza, come lo è per Jung. Una sorta di indagine psicoanalitica?
Mi sono basato per questo su un libro che non è proprio di Jung, si tratta di confidenze registrate da una sua allieva, tranne una piccolissima parte che ha scritto lui. Si intitola Ricordi sogni riflessioni.
Poi nel libro ho inserito il riferimento a I simboli della trasformazione, perché mi sembrava bello avere un “libro rivelatore”. Inoltre quello era un libro che piaceva più a me che a mio padre che era, appunto, uno psicoanalista junghiano.
Mio padre questo libro di Jung lo aveva criticato e aveva rifiutato molto di questo pensiero. Penso sia la differenza tra leggere le cose per puro diletto, oppure leggerle dal punto di vista terapeutico quindi di rapporto con un paziente. Il mio è un approccio da scrittore, non da psicoanalista.
- Scrive che suo padre era Il Mago, perché sapeva ricollocare l’anima delle persone nella traiettoria del suo destino. Lei pensa di aver ereditato questa magia, questo potere attraverso la parola letteraria?
Francamente non mi ci identifico molto, anche se non mi dispiacerebbe l’idea di essere un “mago”. Vedo in quello che faccio più una fatica artigianale, diversa dal mestiere di mio padre. Scrivere è faticoso, non credo negli scrittori che dicono di “divertirsi” quando scrivono, forse li invidio. Il lettore poi non è un paziente: perché la lettura può dare un conforto, ma non istituisce un rapporto terapeutico. Non mi fido degli scrittori che promettono terapia attraverso i loro libri, perché confondono il lettore con il singolo individuo. Un individuo non lo raggiungi attraverso la scrittura, ma attraverso la presenza, l’empatia, quello che poi Freud chiama il transfert.
- A un certo punto scrive che questo libro è un "catalogo ragionato di oggetti". Ma è chiaro che gli oggetti non sono solo oggetti: rappresentano una specie di correlativo oggettivo?
Ogni oggetto contiene una microstoria, quindi ha un suo sviluppo narrativo. Se descrivi un oggetto fai tanti piccoli romanzi. Io sono stato molto attento a farli brevi, perché sia come scrittore che come lettore odio le cose lunghe. Ci sono poi dei geni, penso a Tolstoj in Guerra e pace, che riescono a dare forma definita a una materia narrativa lunga. Se crei una serie di corrispondenze interne e simmetrie a lunga distanza il lettore non le percepisce più. A me invece interessa che i romanzi abbiano una forza narrativa centripeta. I libri cui attribuisco un valore massimo per me sono tutti libri molto brevi, che ci restituiscono un’immagine in miniatura del mondo. A eccezione di Proust che costruisce la sua opera come una cattedrale, quindi come uno “spazio dei tempi”, in quel caso lui ha piena padronanza della forma e riesce a stringere perfettamente tutti i nodi narrativi.
Secondo me Guerra e pace e Alla ricerca del tempo perduto sono straordinari libri brevi travestiti da libri lunghi.
Tornando al mio libro. Un oggetto che credo di aver descritto bene è la lucerna romana: parlando di un oggetto piccolo, umile, misero, volevo dare forma a un episodio, un po’ come sfregando la lampada magica.
- Scrive che la “memoria è una grande romanziera”. Qual è il rapporto tra memoria e scrittura?
Tutto quel che riguarda la trasformazione dell’esperienza in linguaggio è falsificato. Non c’è da fidarsi della memoria più di quanto ci si fidi dell’immaginazione. Non c’è un autentico criterio di verità.
- Ho colto delle similitudini tra il suo libro e altri romanzi usciti nello stesso periodo, sempre di scrittori italiani: Tasmania di Paolo Giordano e Romanzo senza umani di Paolo Di Paolo. In tutte e tre le opere il protagonista sembra trovarsi in un limbo, attraversa una fase di stasi o incertezza, e nel finale ne esce con una sorta di epifania rivelatrice. Secondo lei questo ci dice qualcosa sull’uomo contemporaneo?
Noi usiamo degli schemi narrativi che sono in tutto circa una decina; nessun libro potrebbe iniziare con un’epifania, la rivelazione deve essere alla fine, è un fatto di efficacia narrativa. Per questo non credo ci sia una somiglianza tra noi scrittori come persone, le affinità sono date dalla tecnica. È un’esigenza che hanno gli artisti di rappresentare sé stessi in una maniera intellegibile, credibile, quindi utilizzando uno specifico schema narrativo. Tutti quelli che scrivono sanno che ogni tanto arrivano sulla pagina delle cose che loro non avevano preventivato. La verità è che la coscienza percepisce più di quello che pensa di sapere e scriverlo è una maniera di tirarlo fuori. Quindi gli esiti della scrittura sono sempre molto incerti, perché al centro non c’è l’Io, ma c’è la tecnica. Stando dietro alla tecnica e non al pensiero si dilata la coscienza sino all’inaspettato.
- In un’intervista rilasciata dopo la vittoria del Premio Strega ha detto una frase che mi ha colpito: “Tutto il Premio Strega è autoconservazione e io ne sono il maestro”. Cosa intendeva dire?
Cosa vuol dire autoconservazione? In questo periodo secondo me la letteratura si è molto imparentata al teatro: ci sono letture, festival, presentazioni a volte anche molto spettacolari. La letteratura si è avvicinata a un’esigenza di presenza fisica. Noi scrittori facciamo continuamente delle serate, intratteniamo, la gente vuole vederci. Il libro diventa come il programma di sala di uno spettacolo e non è detto che tutti lo leggano. Nella mia vita ho incontrato folle di gente, come gli attori o i politici, quindi l’autoconservazione sta nel difendersi. C’è una richiesta quotidiana da parte del pubblico, però non bisogna chiedere troppo a sé stessi. La mia filosofia è che posso parlare davanti a duemila persone o, magari, se le cose vanno male, anche a quattro, ma devo dare la medesima performance, sempre il meglio di me. Quindi a volte è meglio dire di no, sottrarsi alla richiesta, rischiando anche di essere antipatici, ma per autoconservarsi, appunto.
- Invece riguardo al Premio Strega? La vittoria ha cambiato il suo approccio alla letteratura?
Al Premio Strega ho partecipato due volte, la prima avevo quasi vinto. Era il 2012 con Qualcosa di scritto. L’ho perso, mi sembra, per uno o due voti. La seconda volta, con Due vite, l’ho vinto. Sicuramente lo Strega ha dato ai miei libri, che comunque sono romanzi ibridi che mescolano narrativa e saggistica, la possibilità di fare un giro sulla “giostra grossa.” Il Premio ha portato i miei romanzi a un livello di visibilità inconcepibile. Per questo ora parlo dell’esigenza di autoconservazione: perché c’è una richiesta continua, potrei vivere in tournée tutto l’anno, però si deve mettere un limite, per non sminuire la propria performance. A volte ti senti come preso a morsi dal pubblico, questo è deprimente e quindi nasce il bisogno di autoconservazione, la necessità di mettere un argine. Ha un grande valore dire di “no”, non possiamo pensare che la gente ci ama solo se la compiaciamo.
- Se dovesse scegliere un suo animale totem si definirebbe ancora una libellula come dice ne La casa del mago?
In realtà io non ho mai pensato consciamente alla libellula. Se potessi scegliere direi, non so, una pantera. Però nel sogno appunto mi è apparsa la libellula.
Di questo ha fatto un’analisi molto bella lo psicanalista Vittorio Lingiardi durante una mia presentazione: ha citato una poesia di Catullo in cui tornava sia l’immagine della libellula che quella delle pietre levigate di cui scrivo nel libro. Chissà, forse inconsciamente lo sapevo, avevo letto la poesia a scuola e poi la mia mente l’ha rielaborata nel sogno. La poesia parla proprio di quello di cui parlo io, quando scrivo dei sassi levigati come le parole. Allora ho copiato Catullo? No, è un altro esempio dell’operare dell’inconscio che, in qualche modo, mi ha riproposto quel contenuto a distanza di anni.
Quella memoria sepolta ha dato al sogno il suo apparato simbolico. Vittorio Lingiardi è stato bravo a scoprirlo. Gli psicoanalisti junghiani non fanno interpretazioni dei sogni, ma amplificazioni. E l’amplificazione in fondo è anche la forma narrativa de La casa del mago.
Recensione del libro
La casa del mago
di Emanuele Trevi
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Emanuele Trevi: “Lo scrittore non è un mago, ma si serve del potere dell’inconscio”
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