La casa del mago
- Autore: Emanuele Trevi
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Ponte alle Grazie
- Anno di pubblicazione: 2023
La casa del mago di Emanuele Trevi (Ponte alle Grazie, 2023) è un libro apotropaico, che sortisce lo stesso effetto delle formule magiche, compiendo una specie di incantesimo capace di riassestare la realtà che traballa. Perché il nostro mondo interiore si regge su un precario equilibrio sempre minato da dubbi, angosce, paure, desideri; questo è ciò che studia la psicanalisi, una scienza non esatta che ben conosce il sottile e invisibile confine tra normalità e follia.
Gli psicanalisti sanno che tra la normalità psichica e la patologia – o devianza – non vi è una linea di confine netta. In questo suo nuovo libro, uscito due anni dopo l’acclamato Due vite (Neri Pozza, 2020) vincitore del Premio Strega 2021, Emanuele Trevi sceglie di adottare il lessico scientifico della psicoanalisi, fondendolo con quello umanistico della letteratura, per rievocare la memoria del padre, il noto psicanalista junghiano Mario Trevi.
Ne risulta un’opera ibrida – come lo sono, del resto, tutti gli scritti dell’autore romano – in bilico tra romanzo e saggio, tra memoir e mito.
Proprio la pluralità dei registri espressivi che vi si intersecano fa di questo libro una sorta di sortilegio che ammalia il lettore e lo tiene intrappolato tra le sue spire sino all’ultima pagina, nella continua attesa di un disvelamento che infine avviene sottoforma di epifania.
La casa, evocata sin dal titolo, non è un elemento casuale: la “casa” è infatti la perfetta rappresentazione della coscienza secondo Carl Gustav Jung, mentore di Trevi senior. Al centro del nuovo romanzo di Emanuele Trevi vi è proprio la casa, ereditata dal padre, che da semplice luogo disabitato si tramuta in presenza, capace di esprimere una volontà propria, come le stanze ancora conservassero una traccia del Mago, ovvero del “guaritore d’anime”, che le aveva abitate. In questi luoghi si aggira sperduto e un po’ trasognato il Trevi narratore cercando di fare i conti con il lutto, con la perdita e, al contempo, di ricostruire l’uomo che percepisce a sé più vicino e, al contempo, più distante: suo padre.
Ogni genitore, in fondo, rimane un insondabile enigma per i suoi figli: è la persona che osserviamo di più, sin dal momento in cui veniamo al mondo, nel corso della nostra vita, eppure è anche chi più ci sfugge, poiché conserva un lato, un aspetto, a noi per sempre inconoscibile. Così è anche per Mario Trevi che, neppure al termine di questa intensa ricerca letteraria, si svela totalmente al figlio Emanuele: continua a essere quell’uomo “difficile, misterioso, saturnino”, che si cela dietro la bizzarra espressione pronunciata dalla madre, un modo di dire che subito proietta la narrazione dal piano personale a quello universale, “lo sai com’è fatto”.
La memoria, osserva l’autore nella conclusione, è una “grande romanziera” che dilata, corregge, omette senza scrupoli. Per sfuggire all’insidia della memoria ed evitare di mitizzare la figura del padre, Emanuele Trevi decide di restituirci la sua immagine in tutta la sua sfuggente autenticità attraverso aneddoti, episodi d’infanzia e soprattutto – questo l’aspetto più commovente della narrazione – tramite i libri da lui letti e sottolineati nel corso della sua vita. Trevi junior decide di colmare l’assenza – che nella grande casa vuota si spalanca come una voragine – leggendo i libri amati da Trevi senior: si tratta di tomi impegnativi, come Il simbolo della trasformazione di Jung, scritto nel 1911, e un classico della letteratura cinese come l’I King. Il libro dei mutamenti. Ai margini di questi volumi troviamo la voce di Mario Trevi che prorompe in esclamazioni, in domande, in contestazioni di quanto gli autori scrivono.
L’indagine di Emanuele Trevi è meticolosa, ma guidata sempre dall’emozione e dalla sensibilità: non cerca di snaturare il padre per conferire al lettore un’immagine perfetta, intatta, un santino da custodire, ma ne ammette la fallibilità e, allo stesso tempo, riconosce che l’essenza di quell’uomo continuamente gli sfugge.
La verità è che Mario Trevi è labirintico come la città di Venezia nei cui cunicoli Emanuele bambino si perde per un “eccesso d’attenzione” e di premure materne. Quella città sospesa sull’acqua è il regno perfetto per un mago ed è anche il luogo che, non a caso, cementa la relazione tra padre e figlio in molteplici occasioni, sino all’ultimo viaggio dove il Mago pronuncia la sua lezione più memorabile:
Solo ciò che accade due volte possiede un significato magico e arcano. Un evento che si verifica una sola volta è un caso; più di due volte è un’abitudine, un fatto comprovato, dipende da leggi stabilite.
Il simbolo di Venezia per il narratore è un cavallino in vetro di Murano che diventa il modello mentale del rapporto tra lui e il padre, una sorta di animale totem.
Gli oggetti sono delle vere e proprie pietre miliari nel racconto di Trevi perché ogni oggetto appare dotato di coscienza, si fa portatore di un dolore, di una mancanza, di un rimpianto. Tra i più importanti ricordiamo la vecchia lucerna che ricorda l’infanzia del padre devastata dalla guerra; o ancora l’I King dalle pagine ingiallite e sgualcite in cui il narratore ritrova il più perfetto ritratto del Mago racchiuso in un esagramma. Ma sopra ogni cosa il fil rouge della storia è dato dai ciottoli di fiume che Mario Trevi amava ripulire e levigare: quei sassi tirati a lucido con la carta vetrata, il piccolo rito privato di Trevi senior, rappresentano l’epifania per eccellenza che permette al narratore di arrivare vicino a quanto di più simile a un’origine, a una fonte di energia potente e indefinibile.
Le pietre levigate dal padre, osserva il narratore, non sono poi così diverse dalle parole che sono sempre le stesse eppure mai identiche, degli “attrezzi del mestiere” di cui avere cura perché permettono di esorcizzare il caos della vita. Ed è qui che il Trevi scrittore si contamina con il Trevi psicoanalista in un gioco di riflessi e di specchi, sempre in bilico tra reale e irreale, che infine conduce il lettore nel mezzo di una verità.
Trevi senior leggeva Carl Gustav Jung e citava il maestro Ernst Bernhard, Trevi junior ne assorbe gli insegnamenti psicanalitici e nel frattempo li arricchisce con le sue citazioni letterarie: Natalia Ginzburg, Beppe Fenoglio, Peter Handke e altri. Nel mezzo la vita che scorre, anche dopo la morte, il tempo che va sempre avanti e non torna mai indietro.
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L’autore riesce a cogliere questo processo e immortalare ciò che accade attraverso la scrittura, realizzando un romanzo che non è un romanzo e neppure una biografia. La casa del mago è una sinfonia di storie e di presenze, soprattutto femminili. In questa girandola troviamo personaggi curiosi e divertenti, come la Degenerata e Paradisa; altri enigmatici, come Miss Miller, la paziente che Jung non incontrò mai, ma che fu d’ispirazione per il suo saggio più celebre; e altri ancora, come la misteriosa Visitatrice, che appaiono come un artificio di scrittura, un effetto letterario da realismo magico. Dietro tutti loro si cela, saturnina e ineffabile, la figura di Mario Trevi, che rimane un mistero protetto dal suo scudo inscalfibile “lo sai com’è fatto”.
In realtà Emanuele Trevi in questo libro ha assorbito la voce del padre, ascoltandola sino a farla propria e riuscendo a creare la perfetta rappresentazione letteraria della coscienza sino a cercare di afferrare almeno un bandolo di quella sostanza pieghevole, corruttibile, delicata che è l’anima. Ecco, Mario Trevi, “il Mago”, era capace di ricollocare l’anima delle persone nella traiettoria del suo destino; lo stesso fa suo figlio, Emanuele, servendosi della parola letteraria.
A lungo si è definito Trevi come uno scrittore di morti, un narratore propenso a dialogare con i fantasmi, con le assenze: perché nei suoi libri più celebri, si pensi a Sogni e favole o Due vite, riscrive le esistenze di persone scomparse. Ma in verità il Trevi narratore è con i vivi che intesse il suo dialogo, muovendosi sempre sul filo teso del sogno e dell’irrealtà, sino a giungere a misteriose epifanie, attimi perfetti, capaci di legare il tutto, la vita e la morte, in un grande cerchio. E la ripetizione, dunque le traiettorie di queste vite già vissute, diventa uno spiraglio, un indizio, perché “solo ciò che accade due volte possiede un significato magico e arcano”.
Proprio da degno figlio di un Mago, anche il Trevi narratore non svela al lettore i suoi trucchi. Chi era, dunque, la misteriosa Visitatrice?
Forse l’incarnazione sfuggente dell’anima (che i greci chiamavano Psiche, per ricondurla appunto al “soffio”, al respiro vitale) o della coscienza che, attraverso la presenza metaforica della casa, governa l’intero libro mantenendone intatto il sortilegio.
Recensione di Alice Figini
Da qualche giorno ho finito di leggere il bel libro di Emanuele Trevi. Ho riflettuto ed esitato a scriverne, perché mi ha coinvolto in vari modi: intanto la scrittura, così intensa, variata nel registro, capace di passare dal tono alto delle riflessioni filosofiche, a quello ironico delle parti autobiografiche che raccontano un’infanzia, una giovinezza, una vita a contatto con una presenza forte, quella di suo padre, il professor Mario Trevi, famoso psicoanalista junghiano.
Il mago, appunto, è questo personaggio chiuso, appartato, con uno studio nel quartiere borghese dei Parioli, colui che il figlio, ancora bambino, si sentiva descrivere dalla madre, anche lei grande psicoanalista, con la celebre frase, incipit del romanzo: “Lo sai com’è fatto”. Già, perché Trevi ha scritto un romanzo, certamente in gran parte autobiografico, anche se davvero molto particolare, dato che vi si alternano parti che assomigliano piuttosto a un saggio filosofico, ad altre del tutto fantasiose, romanzesche, con personaggi creati dalla fantasia di una narratore di valore: ecco allora la Visitatrice, la Degenerata, Paradisa, che partecipano alla narrazione quanto i personaggi reali della vita dello scrittore: la madre, la sorella, ma sempre e soprattutto il Mago.
Il rapporto con il padre infatti è al centro del libro La casa del mago, che parte dal racconto che, in seguito alla sua morte, si decide di venderne la casa; le molte visite all’appartamento sono infruttuose, sembra quasi che le mura respingono i potenziali acquirenti, tanto che alla fine il narratore compie un passo decisivo: lui stesso lascerà la casa in centro, per trasferirsi con pochi scatoloni nel quartiere della sua infanzia, in quelle stanze che avevano ascoltato le voci delle centinaia di pazienti che il professore aveva cercato di guarire, dove aleggiava, intorno alla monumentale scrivania, il mondo, gli oggetti, i libri, gli appunti, i disegni, le annotazioni vergate con una calligrafia chiara e precisa, che Mario Trevi aveva accumulato nel corso della sua lunga vita professionale.
La narrazione procede su diversi tempi, quello dei ricordi personali, quello dell’inquieto presente del figlio, che ripercorre con affettuosa ironia il cammino a fianco di un padre speciale: eccolo appena decenne perdersi a Venezia, inseguendo un uomo che non era sua padre, malgrado le raccomandazioni della madre,“ sai- come- è- fatto”, ripetuto come un mantra per rendere il bambino responsabile della distrazione paterna; e ancora accompagnarlo, poco prima della morte, al liceo Vitruvio di Formia, invitato da un gruppo di ex alunni di decenni prima, quando il professore di filosofia Mario Trevi aveva cominciato a insegnare. “Purché non si resti a cena”, aveva preteso, poco attratto dai ritmi conviviali, mentre un panino alla stazione insieme al figlio lo avrebbe maggiorante gratificato.
Il capitolo in cui è raccontata l’incapacità del professore di guidare la macchina, una vecchia Citroen azzurra, è un pezzo di grande e affettuosa comicità, assolutamente esilarante. A intere pagine dedicate a Jung, alle notazioni che il padre aveva fatto ai suoi libri, alla presenza della celebre Miss Miller, una paziente dello stesso Jung, si aggiunge il lungo ritratto di Ernst Bernhard.
Un capitolo del libro molto coinvolgente, perché riassume quanto lo psicanalista ebreo, che aveva rischiato di finire ad Auschwitz, deportato poi in Calabria, abbia lasciato un ricco epistolario scambiato con la moglie Dora, in un italiano imperfetto:
Facciamo tutto ciò che possiamo fare e basta; perché non possiamo sapere di cui abbiamo bisogno.
Nel libro incontriamo tanti nomi famosi della cultura italiana che ci sono familiari, quelli di Manganelli, di Natalia Ginzburg, di Pietro Citati, Cristina Campo, molti dei quali pazienti di Bernhard nello studio di via Gregoriana: il più famoso, Federico Fellini.
Forse ciascuno nei libri legge ciò che vuole trovarci; per me la parte più vera, profonda, emozionante della narrazione di Emanuele Trevi sta negli oggetti che il padre aveva maneggiato, nel vero senso della parola: mi riferisco alla collezione di sassi, raccolti, limati, levigati, accarezzati dalle mani del mago Merlino. E anche alla piccola umile lucerna romana, dono della professoressa d’inglese, che aveva accompagnato il piccolo Mario e le sorelle su un autobus, in fuga da Alba:
Simbolo senza dubbio confortante, ma anche ammonitore delle tenebre che incombevano, che sarebbe stato necessario attraversare.
Nel rievocare la figura del padre, Emanuele Trevi ricorre a molti aneddoti, a libri importanti che ne hanno determinato la carriera appartata ma nondimeno eccezionale, a memorie di un tempo in cui lui non c’era, quello della guerra, della militanza partigiana, della coperta infeltrita con un buco, quello che miracolosamente non lo aveva ucciso durante un’azione.
E anche a un sogno, in cui lo scrittore auspica che il padre lo incoraggi a scrivere di lui, perché:
Scrivere di persone e vicende reali non è troppo diverso dal cimentarsi con storie totalmente inventate. La memoria è una grande romanziera: dilata, corregge, omette senza scrupoli, pretende di usurpare un’affidabilità che non le appartiene.
Recensione di Elisabetta Bolondi
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Vogliamo capire che cosa sia la magia? Questa parola viene molto usata, di cui però si trascura o non si conosce l’origine. Proviene dal persiano "magu", uomo di potere spirituale, attinente a "mag", il fluido vitale, l’energia che penetra invisibilmente l’universo, in sanscrito chiamata prana.
Emanuele Trevi, un cercatore di sapienza, critico letterario, romanziere di successo e di scrittura elegante e ironica, vincitore del Premio Strega nel 2021 con il libro "Due vite", figlio dello psicanalista junghiano Mario Trevi, nel suo ultimo romanzo "La casa del mago" (Ponte alle Grazie editore, pp. 256, 2023) si cimenta con il tema esplicitato, la magia.
Ha compreso, grazie soprattutto al rapporto con un padre speciale, indagatore del profondo, che la magia è la capacità di trasformare la psiche, penetrare i suoi grovigli e labirinti, per il dominio di sé. È creare un rapporto con il mondo, e con l’autorità genitoriale, che non sia di sudditanza o di plagio, ma faccia emergere chi veramente siamo, ovvero ciò che Leibnitz ha chiamato "monade", unità eterna irriducibile ad altro.
Soprattutto si tratta di trovare la libertà dalla paura della morte, scoprire l’eternità nell’attimo, abitare il proprio centro. Così Trevi, parla intenzionalmente di "pietra" come fanno gli alchimisti nel loro simbolo essenziale, la "pietra filosofale":
"la pietra preziosa dell’attimo, la risposta invocata da tutte le domande".
Ricordo per inciso che Jung studiò per decenni l’alchimia, la scienza della trasmutazione per eccellenza, ne scrisse un poderoso saggio e della sua stessa vita fece il "lapis".
Nel romanzo di Trevi la pietra diventa la casa del padre che lui eredita, in cui va ad abitare dopo che, stranamente per caso, ma il caso non esiste, esiste un fato, un destino, non si trovano acquirenti. Qui mi corre d’obbligo citare una sentenza di Eraclito:
"Il destino dell’uomo è il suo carattere".
Nella casa "magica" il figlio trova anche il suo tema natale astrologico, conservato dal padre da 50 anni. Quello che in apparenza sembrava un genitore assente, preso dal lavoro, al contrario conosce il figlio nell’archetipo stellare che lo caratterizza.
Nel rivisitare il passato, la figura paterna, essenziale, emerge come un uomo fuori da ogni schema, mago della psiche di cui la madre soleva dire al figlio: "Lo sai com’è fatto". È un uomo distratto e avulso dal mondo esterno, solitario, concentrato nell’interiorità.
Attraverso il confronto che non diventa scontro ma introiezione e assimilazione, il figlio scoprirà il suo carattere, la sua magia, che viene travasata nell’arte della scrittura.
Nel libro si trovano i ritratti di molti personaggi famosi. Il più emblematico è senza dubbio Ernst Bernhard, anche lui eccellente psicanalista junghiano, ed in particolare psicologo di Federico Fellini, dal regista considerato suo padre spirituale.
Non poteva mancare il completamento di sé con il confronto tra maschile e femminile. Le donne scelte dallo scrittore sono una domestica pasticciona che non sa pulire, detta "La Degenerata", e un’amica quarantenne di costumi molto liberi.
Nel "kama Sutra", letteralmente "versetti del desiderio", il femminile è spesso una prostituta esperta nell’eros. È comprensibile e al di là dei pregiudizi correnti. Ma perché anche una domestica nella trama? Perché la domestica, secondo l’accezione corrente, dovrebbe mettere ordine, è metafora del razionale. Invece la donna per sua natura è il lato opposto del razionale, pura immaginazione da integrare nella coscienza. Per cui ecco la domestica anti domestica, che il protagonista non riuscirà a licenziare.