Anna Franceri è giovanissima: nata il 2 maggio del 2000, vive in Liguria. A circa metà del secondo anno di scuole medie, entra nel mondo "dei mostri": il vortice cupo dei disturbi alimentari, che la porterà nel corso degli anni a due ricoveri.
In attesa del secondo, scrive un diario, con cui si classifica seconda al concorso Catel Govone.
Con Lascia l’aquilone (arabAFenice, 2019), suo romanzo d’esordio, Anna Franceri si mette a nudo ed espone i suoi pensieri durante il periodo più buio del suo disturbo alimentare.
- Com’è nato l’amore per la scrittura e quanto è stata importante in questo tuo percorso?
Ho sempre amato scrivere e immaginare scene che poi portavo avanti nella mia mente, senza mai provare a metterle su carta. Penso, però, che per amare la scrittura serva amare i libri e le storie. Nel percorso che ho affrontato è stata un’ancora di salvezza, un posto sicuro dove poter esprimere con facilità la rabbia, il dolore e tutte le emozioni che stavo affrontando. Quindi direi che è stata la mia medicina.
- Com’è nato il titolo Lascia l’aquilone?
Il titolo è nato da una tradizione e sinceramente, mi dispiace, ma l’ho sentita da piccola e quindi non ne ricordo la provenienza: durante una festività legata agli aquiloni, i bambini si sfidavano a tagliare il filo degli aquiloni “avversari” in volo. Il filo di ogni aquilone era riempito da schegge di vetro e solamente l’ultimo aquilone rimasto in cielo avrebbe vinto questa competizione. Il fatto di lasciar andare l’aquilone per me è come pensare di poter finalmente liberare la mia mano dalle schegge di vetro e smettere di sentire questo dolore.
- Nel diario scrivi: “Si sente dire che l’anoressia è il problema da curare. Subito lo pensavo anch’io… poi ho capito: l’anoressia non è il problema, è lo sfogo”. Si dice che capire è il primo passo per la consapevolezza e a quel punto per la trasformazione. È stato così anche per te?
Insomma, ogni ragazza o ragazzo che soffre di questa malattia arriva a un punto in cui capisce che sta sfogando ciò che ha dentro sul suo corpo e quindi ne prende consapevolezza. Parlando della mia esperienza personale, posso dire che prima ancora della trasformazione deve esserci l’accettazione della cosa, bisogna elaborarla e scavare dentro di sé per trovare il motivo che ha scatenato il tutto, perché, se non si risolve quello, non si avrà una vera trasformazione. È un lavoro frustrante e lungo, sembra quasi che la cosa non finisca mai, eppure lentamente ti trasformi senza accorgertene. Penso che non si tratti di passaggi separati ma di un unico, lungo, passaggio.
- Cosa significa sentirsi prigionieri del proprio corpo?
Credo sinceramente che non ci sia una definizione specifica e che ogni persona la traduca a modo suo, in base alle sue sensazioni. Io mi sentivo, e devo ammettere che a volte succede tuttora, incastrata in un qualcosa che non mi apparteneva. Ho sempre visto il mio corpo come un sacco da boxe. Una cosa creata solo per portare fuori ciò che avevo dentro. Penso ancora che il nostro corpo abbia anche quella funzione, solo prima lo vedevo nel modo sbagliato. Diventiamo prigionieri di noi stessi quando siamo i primi a disprezzarci, a camuffare la nostra estetica per adeguarci alla società in cerca di accettazione. Alla fine arriviamo a odiarci per il fatto di non essere noi stessi ma abbiamo paura a tornare indietro, perché nemmeno ricordiamo cosa voglia dire essere “noi stessi”. Questo, per me, è il significato del sentirsi prigionieri del nostro corpo.
- Nel periodo di ricovero si sono presentati momenti in cui saresti voluta andare via, e questo desiderio tu lo definisci “guerra”. Perché questa definizione?
Era un insano desiderio di morte, di combattere per non uscire da quel luogo buio che era la mia malattia. Il periodo in cui volevo andarmene è stata una guerra tutti contro tutti.
Mi spiego, era una guerra nella mia testa, tra la parte che voleva restare e provare a guarire e darsi una nuova possibilità e la parte che voleva vedermi morire lentamente, senza darmi la minima speranza che ci potesse essere qualcosa di bello nel mio futuro. Era una guerra con i medici, che volevano farmi restare a tutti i costi, perché sapevano quanto fosse delirante la mia decisione. Infine era la guerra che combattevo contro i miei genitori: avevo 17 anni ed essendo minorenne senza la loro firma io non potevo autodimettermi dalla struttura. Ho pianto e urlato tanto in quel periodo, ma non ringrazierò mai abbastanza tutte le persone che hanno lottato per tenermi con loro e darmi una nuova possibilità.
- Il giorno prima della dimissione, scrivi: “Senti la luce del sole sulla faccia e ti ripeti di avercela fatta, di aver trovato la luce in fondo al tunnel e di avere la mano libera dall’aquilone”. Quali sono state le emozioni in quel momento?
Le emozioni sono state tante, troppe a dire il vero. Quella predominante era la felicità, l’idea di poter riabbracciare gli amici e i parenti. Era però subito seguita dalla tristezza. Insolito pensare che stai per essere dimessa e sei triste. La verità è che nel periodo di ricovero si crea una vera e propria famiglia allargata, eravamo nello stesso posto 24 ore su 24. Impossibile non stringere legami, alcuni più forti e alcuni meno. Come da tradizione nella comunità, la sera prima della dimissione viene portato nella hall un cartellone girato, che la persona che partirà potrà vedere soltanto al momento della partenza. Ragazze, ragazzi e il personale della struttura lasciano una firma o una dedica. Prima di andare a dormire mi hanno lasciato un piccolo regalo da parte di tutti. Ero stata assalita, alla fine, da una strana nostalgia per il posto a cui avevo decretato guerra qualche mese prima.
- Che messaggio vuoi dare con questo libro?
Il messaggio che spero di poter far passare è quello della speranza. È un libro che vuole far capire cosa può passare per la testa di un’adolescente malata di disturbi alimentari. Le malattie della psiche vengono poco considerate, perché non sono visibili a occhio nudo. Non sempre vengono espressi sintomi per queste patologie, quindi voglio anche dare un messaggio sul fatto che non si può continuare a vivere senza sapere veramente di cosa si parla quando si parla di questi disturbi e far pensare anche a dosare le parole, perché spesso sono queste a lasciare i danni più gravi.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista ad Anna Franceri, in libreria con "Lascia l’aquilone"
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Ti presento i miei... libri News Libri Recensioni di libri 2019
Lascia il tuo commento