Una nuova e coinvolgente penna si è recentemente affacciata nel multiforme universo della narrativa italiana, si tratta dell’esordio toccante e intenso di Roberta Recchia che con Tutta la vita che resta (Rizzoli, 2024) è destinata a toccare nel profondo l’animo del lettore, come pochi sono in grado di fare, regalandogli una storia indimenticabile, dall’ampio respiro corale e al contempo così intima.
Uno strappo che sembrava impossibile da ricucire, una famiglia che nel corso degli anni ritrova la strada nella forza dei legami. Come Marisa e Stelvio Ansaldo, che nella Roma degli anni Cinquanta si innamorano nella bottega del sor Ettore, il padre di lei. La loro è una di quelle famiglie dei film d’amore in bianco e nero, fino a quando, anni dopo, l’adorata figlia sedicenne Betta – bellissima e intraprendente – viene uccisa sul litorale laziale, e tutti perdono il proprio centro.
Quell’affetto e quella complicità reciproca non ci sono più, solo la pena per la figlia persa per sempre. Nessuno sa, però, che insieme a Betta sulla spiaggia c’era sua cugina Miriam, al contrario timida e introversa, anche lei vittima di un’indicibile violenza. Sullo sfondo di un’indagine rallentata da omissioni e pregiudizi verso un’adolescente che affrontava la vita con tutta l’esuberanza della sua età, Marisa e Miriam devono confrontarsi con il peso quotidiano della propria tragedia.
Il segreto di quella notte diventa un macigno per Miriam fin quando – ormai al limite – l’incontro con Leo, un giovane di borgata, porta una luce inaspettata: l’inizio di un amore che fa breccia dove nessuno ha osato guardare.
Tutta la vita che resta è un romanzo dolcissimo e doloroso che esplora i meccanismi della vergogna e del lutto, ma soprattutto dell’affetto e della cura, e li fa emergere con una delicatezza sapiente, capace di incantare e sorprendere.
Si è raccontata per noi in questa mia intervista.
- Sappiamo che prima di questo suo esordio narrativo, fin da bambina si è accostata più volte al mondo della scrittura. Cosa cerca da sempre nel potere di quest’ultima? Quali trasformazioni, intimamente e nella sua prosa, ha potuto riscontrare fino ad oggi?
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La scrittura, nella mia vita, ha più volte cambiato ruolo. Sono stata un’adolescente riservata, socializzavo con difficoltà e la scrittura mi offriva una realtà rassicurante in cui rifugiarmi. Da adulta, soprattutto nei lunghi anni di lavoro d’ufficio, la scrittura è diventata una vera e propria via di fuga da una realtà in cui non mi riconoscevo affatto e mi opprimeva persino. Poi, alla ricerca di una professione che mi facesse sentire davvero realizzata, ho intrapreso la strada dell’insegnamento, che mi ha portato grande serenità. Diventata insegnante, non ho più sentito l’esigenza di un mondo parallelo in cui rifugiarmi e mi sono messa in ascolto rispetto ai miei personaggi, sono diventata una narratrice più equilibrata e generosa. Non conto più io, ma le storie che i miei personaggi hanno da raccontare.
- Da dove nasce un titolo così suggestivo e potente, dal forte impatto? Ha radici legate a un ricordo personale, a una particolare suggestione intima, a qualcosa di letto, ascoltato o magari visto?
Il titolo non è quello che inizialmente avevo scelto, dal suono un po’ noir. La mia agente riteneva che il titolo originale fosse fuorviante rispetto ai temi del romanzo, così ho suggerito in alternativa La vita che resta, che mi sembrava rendesse l’idea di una frattura, di un prima e un dopo, ma anche di uno sguardo di speranza verso ciò che ci aspetta. L’idea di aggiungere il “tutta” è stata della mia agente, per dare maggiore potenza e una connotazione più positiva al titolo. Sicuramente una bella intuizione di cui le sono grata.
- Un tema indubbiamente attuale, quello della violenza sulle donne. Cosa ha voluto comunicare al lettore raccontando da vicino gli aspetti insidiosi, subdoli di una realtà pericolosa e sempre più frequente?
Credo che la storia che racconto sottolinei soprattutto quel meccanismo pericolosissimo che spesso si innesca quando la società, mossa dal pregiudizio, cerca elementi di colpevolezza in una vittima di violenza di genere. La storia che racconto richiama alla memoria tanti fatti di cronaca tristemente noti e Betta è una figura simbolica, che racchiude in sé tante vittime e ci invita a riflettere su quanto ancora ci sia da fare affinché questi fatti non accadano più.
Le birre e l’hashish hanno allentato i freni alla lingua e, siccome di vero hanno poco da raccontare, cominciano a fantasticare. Convengono che ce ne sono tante che andrebbero messe al posto loro senza troppe cerimonie, che i maschi dovrebbero poter fare i maschi.
- Seconda tematica tanto attuale quanto delicata è rappresentata dalla disforia di genere. Perché ha sentito il bisogno di affrontarla da vicino? Quali messaggi ha voluto veicolare attraverso un preciso personaggio?
In realtà non scelgo mai a priori di trattare dei temi, sono i personaggi che, con le loro storie, fanno emergere realtà e tematiche diverse. Corallina ha portato con sé il suo universo, ha offerto uno sguardo sulla questione della disforia di genere, tuttavia è un personaggio che vive e agisce esattamente come gli altri. Corallina ha un passato difficile, ma “non è” la sua disforia di genere. Certo emergono le difficoltà legate alla sua particolare situazione, il vissuto doloroso, ma Corallina è Corallina e basta, la sua presenza nella storia non è giustificata dalla questione dell’identità di genere. Credo che il messaggio sia in questo: Corallina è straordinaria per ciò che è come individuo, non per come appare.
- Due cugine adolescenti a confronto, Betta Ansaldo e Miriam Bassevi, così diverse fra loro. Quale tratteggio l’ha coinvolta maggiormente ed è stato più complesso da delineare?
Betta e Miriam, benché diverse, non sono state difficili da tratteggiare. Betta è la tipica adolescente solare, estroversa, Miriam è più timida, riservata. Dopo i fatti che sconvolgono la sua vita, Miriam sprofonda drammaticamente nelle sue fragilità. Per certi versi ho attinto ad alcuni aspetti della mia adolescenza difficile, soprattutto per raccontare la sua solitudine, l’incapacità di confrontarsi e reagire al dolore, la ricerca disperata di un rifugio.
- Affronta più volte nel corso della storia il concetto di “dimenticanza”. È inevitabile? È insidiosa? Può rappresentare, in alcuni casi, un rifugio? Ritiene sia meglio “legittimare” il recupero della memoria al fine di una comprensione più immediata e profonda di sé stessi e della vita?
La dimenticanza è impossibile. Per Marisa rappresenta la paura di perdere il ricordo della figlia amatissima, tutto ciò che le resta di lei; per Miriam è una necessità vitale, la memoria la tortura. Per entrambe sarà necessario imparare a convivere con il dramma che hanno attraversato senza che esso le devasti, le annulli. Il nostro vissuto fa parte di noi, cancellare ciò che ci addolora è un’illusione. Ѐ necessario trovare la forza di confrontarsi con la sofferenza, dare il tempo alle ferite di cicatrizzare, trovare un senso nuovo all’esistenza.
- Una nitida lente di ingrandimento su rapporti famigliari complessi e contraddittori è la prospettiva che dà corpo ed essenza alla storia narrata. Quanto è radicato in lei il concetto di famiglia? Bisognerebbe tornare a una “rieducazione” psicologico-emotiva di sé stessi, da questo punto di vista? Secondo lei quello della famiglia è un valore già perso o destinato a perdersi nel tempo?
La famiglia, intesa come nido stabile e nucleo educante, è un valore secondo me in crisi. Mi capita spesso di confrontarmi con ragazzi che nella loro vita non hanno punti fermi, figure di riferimento sufficientemente attente e presenti. Bisognerebbe riflettere sul fatto che un nucleo familiare solido, di qualunque natura, è determinante nella formazione di un individuo. Oggi in molti casi c’è la tendenza a delegare alla scuola l’educazione all’affettività, che deve invece necessariamente avvenire prima di tutto in ambito familiare. Rischiamo di ritrovarci con generazioni precocemente autonome in senso pratico, ma acerbe da un punto di vista psicologico-emotivo. Io per esempio ho avuto una famiglia che si è disgregata presto, alla soglia della mia adolescenza, e ancora stento a colmare le mancanze.
Stettero un po’ così, a dirsi tutto senza bisogno di parlare. Passò loro davanti il ricordo del tempo dei silenzi, che aveva esacerbato la sofferenza e li aveva smarriti. Se mai c’erano state colpe, in quell’ennesimo silenzio ciascuno perdonò l’altro. E fu quanto bastava per cominciare a rialzarsi insieme, con quel poco di forza che era rimasta per sopravvivere.
- Parla più volte del senso di colpa. Lo vediamo nitidamente, ad esempio, mentre scorre lentamente nelle vene di Emma, mamma di Miriam e sorella di Marisa. Quali impressioni e riflessioni ruotano attorno a questo tema? Provare sensi di colpa può aiutare a cambiarci e migliorarci nel nostro percorso di vita o, estremizzando, a volte può minare la nostra salute mentale?
Dipende dall’origine del senso di colpa. In alcuni casi è giusto, deriva da mancanze oggettive, e rappresenta uno stimolo a porre rimedio ai propri errori. Diverso è quando il senso di colpa proviene da una sensazione di inadeguatezza o, peggio, viene indotto dalla manipolazione emotiva da parte di qualcun altro. In questo caso è dannosissimo per il benessere psicologico, ma penso sia giusto che di queste tematiche parli chi ha le competenze. Io racconto di singoli personaggi, situazioni e storie particolari, l’argomento è ben più complesso.
- Cosa sente di dirci in merito ad altre costanti di vita in cui possiamo imbatterci più volte, come la vergogna, la paura, il perdono e il pregiudizio?
Il pregiudizio va sradicato con la conoscenza, secondo me non c’è altra via. Per il resto penso che la chiave sia l’apertura verso gli altri, la ricerca del sostegno, il coraggio di mostrarsi con le proprie fragilità. Ci sono situazioni che è quasi impossibile sostenere in solitudine, ecco perché diventa vitale avere intorno una rete pronta a venirci in aiuto. I momenti di difficoltà arrivano per tutti e la vicinanza dell’altro può renderci più forti. Il problema però è la società, che sta diventando sempre meno empatica e più individualista. Intorno a noi c’è tanta insospettabile solitudine.
- Qual è il suo rapporto con la fede, la spiritualità?
Complesso e semplice al contempo. Non credo in un dio, ma istintivamente percepisco forte la meraviglia del tutto che va ben oltre noi, che crediamo di essere il centro e invece siamo un granello. Mi riempie di amore e gratitudine essere parte di questo tutto, anche se minuscola e inesorabilmente transitoria. Il pensiero di avere questo privilegio mi consola nei momenti bui.
«Possiamo chiuderci nel dolore, Bertilla, o decidere di prendere il buono che abbiamo intorno» disse Marisa posando la mano sulla sua scatola. «Ѐ difficile. Ma ho bisogno di credere che in tutto quello che è stato ci sia un senso che ora non possiamo comprendere. Che un giorno tutto sarà chiaro, che quanto è stato non è che il dettaglio di un disegno che ancora non abbiamo occhi per vedere.»
- Tornando al passato, considerando che a inizio romanzo delinea un tratteggio molto suggestivo della Roma degli anni ’50, cos’è che rimpiange maggiormente di quei tempi?
Non erano anni facili, eppure fra la gente c’era la voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e di guardare al futuro con fiducia. Ho la sensazione che oggi ci sia un’inversione di marcia. Ho il timore che la retorica e una narrazione spesso distorta della realtà stiano mascherando l’inizio di un processo di involuzione.
[...] per le cose brutte c’era un rimedio e dal male si poteva guarire solo stando accanto a qualcuno che ci tenesse.
Recensione del libro
Tutta la vita che resta
di Roberta Recchia
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Roberta Recchia, in libreria con “Tutta la vita che resta”
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