Photo credit: Massimo Forchino
Leonardo Bonetti è nato a Roma nel 1963. Poeta e scrittore, laureatosi in Lettere all’Università La Sapienza di Roma, ha pubblicato articoli su diverse riviste letterarie e cinematografiche tra le quali Il Caffè illustrato, L’illuminista, 451 Via della Letteratura della Scienza e dell’Arte, ET Cinematografica, La Gru, Rifrazioni.
Per Marietti ha pubblicato i romanzi:
- Racconto d’inverno (Premio Nabokov 2009),
- Racconto di primavera (Premio Carver 2011)
- Racconto d’estate (2012).
Il suo volume A libro chiuso, meditazioni a margine in prosa poetica (Sigismundus 2012), ha vinto la XXVI edizione del Premio Lorenzo Montano.
“Una storia immortale”
Il 13 novembre è uscito Una storia immortale (Italic, Collana Pequod) avvincente romanzo in bilico tra thriller e racconto filosofico la cui storia sembra non avere fine perché appunto immortale. Tutto ha inizio in un albergo, dalla porta “lastra nera da cui occhieggia uno spioncino socchiuso” della camera 46, situato nel centro di una Roma del futuro alle soglie di un’importante tornata elettorale.
“I passanti, per strada, attendono quello che deve accadere senza battere ciglio, respirando solo in modo un po’ più veloce. Sanno che un gruppo di manifestanti dovrebbe passare di lì a spaccar tutto, ma non si lasciano condizionare”.
Intervista a Leonardo Bonetti
- “...vendetta, che nascosa, fa dolce l’ira tua nel tuo secreto”. Leonardo, per quale motivo ha posto come esergo del volume un verso tratto dal XX canto del Purgatorio della Divina Commedia di Dante Alighieri?
Il tema della vendetta è il cuore di questo libro, di questa storia immortale. Un sentimento che, nell’esperienza dell’ingiustizia, sublima il dolore prolungandolo nel tempo, fissandolo ab aeterno. Sicché, nel fare questo, ne disinnesca al tempo stesso il potere dirompente. Lo scotto da pagare è il più alto: esserne divorati. Una vendetta protratta per anni divora l’anima di chi è vivo arrestando ogni sua evoluzione al momento dell’ingiustizia subita, impedendo che si trasformi in una crescita naturale, sensibile. È dolce, l’ira, nel segreto della vendetta. E il suo è un prolungarsi della pena, un "purgatorio". Questo Dante lo aveva fissato con magistrale sintesi poetica, attraverso il suo dettato più vibrante, robusto.
- Come è nata l’idea centrale del romanzo?
All’origine del romanzo c’è una necessità sentita nel corso degli anni, generata dal rapporto col mondo, dall’attrito di un’anima: affrontare il tema del male attraverso la classica declinazione di spietatezza e compassione. Con la coscienza che questi due poli richiedono ad ogni passo una ridefinizione; che la necessità, anzi, sottesa al loro contrapporsi, è quella del più profondo cambiamento. Il libro, intendo - questa Storia immortale - chiede questo, espressamente, ma pretendendolo. La sua è una tensione e nello stesso tempo una preghiera; che a cambiare siano i protagonisti, innanzi tutto, ma anche, è ovvio, coloro che attraverseranno il libro armati solo della propria sensibilità, privi di ripari. Il romanzo, immagino, si esprime così; non fa che chiedere, a ogni pagina, un Nigro meno tragico, una Blanička meno pura.
- Che cosa hanno in comune l’anziano Professor Sebastiano Nigro e la giovane Blanička “scesa direttamente dalle campagne della Bucovina”?
Un dolore. Entrambi, infatti, portano la sofferenza e la pena dei loro destini. Il primo, l’anziano Professore, col carico di una colpa; quella di chi ha creduto a un mondo, a una cultura e, aggiungerei, a una ideologia dell’ordine; un mondo che, dopo averlo allevato nell’illusione delle sue certezze, gli ha strappato la figlia violando il cuore più intimo del suo amore, il più fragile. Solo dall’incontro di questi personaggi può aprirsi un varco, la possibilità stessa di una trasformazione. Il romanzo, è vero, non risolve le contraddizioni di un mondo, il nostro, postmoderno e globalizzato, ma propone una via: un lungo confine, estremo, dell’origine, dove un’ultima svolta è possibile. La si compie in due, secondo le sole coniugazioni di cui la parola poetica dispone: l’io e il tu. Quando la seconda persona diverrà prima plurale, puro noi, sarà di nuovo possibile scendere dalle montagne, tornare a valle per scavare il solco di una nuova città. Questo l’auspicio del libro, il suo testamento.
- L’Italia del prossimo futuro da Lei descritta nel romanzo, non è poi così diversa da quella attuale, non trova?
L’Italia descritta nel libro è, in effetti, una variazione sul tema, musicalmente parlando; è l’Italia di un futuro ancorato al presente; Italia del domani, del dopodomani, al più. Ed è ovvio che si tratta di un paese in crisi, una comunità frammentata e ferita, senza più consapevolezza se non quella, verticale e oscura, di un bisogno: il cambiamento. Una necessità che, però, si vuol ritardare sine die, essenzialmente per paura. Si chiede cambiamento e si prova terrore. Credo che il romanzo viva di questa contraddizione, di una richiesta di trasformazione che, allo stesso tempo, vive della sua negazione, nello sgomento per le conseguenze che il cambiamento comporterebbe. Lo stallo sembrerebbe completo se quel varco scavato da Nigro e Blanička, scavato in un luogo estremo, non costringesse a riscoprire il senso più profondo dell’umano. Il luogo del confine, dell’origine. Nel romanzo questo è identificato con il Crevacol, il colosso che sovrasta Aosta, luogo disumano per eccellenza che, proprio per questo, si trasforma nel luogo dell’origine prima dell’umano. Il cuore dove la radice prima muove verso l’apparire, il processo stesso della trasformazione nel suo primo stadio. Lì i protagonisti della vicenda saranno chiamati a ridefinirsi senza scampo. E a ritrovare l’umano come estremo senso dell’avventura esistenziale.
- Ha sempre coltivato la passione per la scrittura?
Scrivo da sempre, dall’adolescenza, come molti. E vengo dalla poesia e dalla musica. Trovo strettamente correlato un linguaggio all’altro e affronto il genere romanzo come un atto poetico. Non posso distinguere in maniera troppo netta la strofa dal capitolo, perché entrambe le forme portano l’eco di una parola dal senso profondamente musicale. Con, in più, il portato religioso di chi unisce ciò che era separato. Se la musica, infatti, rappresenta l’espressione del primo contatto col mistero e l’origine delle cose, la parola, per converso, porta a compimento la vocazione più intima dell’umano, il suo stupito desiderio di ricongiungimento. La parola, per dirla più semplicemente, ’lega’ l’esperienza del vivere attraverso i due cuori di un libro: la natura e il tempo. Ecco, questo, credo, è il cammino verso cui indirizzare una vita, un discorso poetico.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Leonardo Bonetti, autore di “Una storia immortale”
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Ciao Leonardo,
in bocca al lupo per questa tua nuova opera,
ogni nostra creatura porta dentro di sè un po’ di noi stessi
e noi stessi siamo un po’ le nostre creature.
la cosa importante è diffondere la cultura, la musica, l’arte,
in una parola: la bellezza!
Intervista molto interessante. L’autore è uno dei pochi che si pone questioni di carattere poetico più generale oggi sulla scena. Leggerò il libro e vedremo se sarà una conferma