Scrittrice, sceneggiatrice, insegnante, Caterina Venturini, dopo l’esordio come autrice del romanzo “Le tue stelle sono nane” nel quale affronta l’argomento del precariato e le relative difficoltà dei giovani di inserirsi nel mondo del lavoro, si presenta nuovamente ai lettori con “L’anno breve” (Rizzoli, 2016), un romanzo intenso che ha anche il sapore autobiografico. È la storia di Ida, anche lei insegnante precaria, che accetta l’incarico annuale come docente di lettere nelle corsie di un ospedale. Il romanzo si rivela oltremodo toccante perché in esso si intersecano le tematiche relative all’adolescenza, al dolore ma anche al difficile ruolo di chi insegna ma da ogni nuova esperienza ha tanto da imparare. Caterina Venturini ci ha gentilmente concesso un po’ del suo tempo e ora è qui a parlare del suo libro.
- Benvenuta su Sololibri, Caterina. Il Suo nuovo romanzo “L’anno breve” ci riporta a un’esperienza intensa che vive la protagonista ma che lei stessa ha sperimentato. Chi è Ida Ragone e cosa significa insegnare in un ospedale?
Ida Ragone è una donna che vive in attesa. Vorrebbe insegnare all’università, ma intanto si accontenta di un posto precario nella scuola pubblica. È delusa dal suo uomo, ma spera ogni giorno che lui possa tornare a credere nei valori che li hanno uniti. Nel frattempo deve togliere le note della sua tesi di dottorato, solo così potrà pubblicarla, ma come in una ideale tela di Penelope, toglie e rimette, non riesce a decidere se accettare un compromesso o no perché per lei quella tesi non va toccata.
Anche insegnare in ospedale è un compromesso di fronte all’alternativa di prendere una cattedra lontano tra le montagne, e non avere più tempo per la sua amata ricerca. Eppure proprio questa sua ennesima scelta poco convinta le rivela un’intensità di vita che non si aspettava.
- Come ci si avvicina ai ragazzi in ospedale? Cosa si prova conoscendo queste giovani vite costrette a crescere troppo in fretta e, spesso, a lasciar da parte quella spensieratezza tipica dell’adolescenza?
Non credo che i ragazzi in ospedale perdano la spensieratezza. Immagino piuttosto un tempo congelato per coloro che hanno patologie di tipo fisico e un tempo dilatato per chi ha una malattia psichica. Con i ragazzi che ho potuto seguire per più tempo, diciamo da un paio di mesi in poi, a un certo punto della relazione veniva sempre fuori il carattere, il mio e il loro. Era questo il miracolo tutto laico che accadeva, che per alcuni attimi ci si incontrava in una qualche regione dello spazio, così come a scuola non è sempre possibile incontrarsi neppure in un intero anno scolastico. E a quel punto spariva perfino la malattia: non che smettesse di essere lì, ma non contava di più del colore dei capelli o della forma di un viso. C’era quel ragazzo o ragazza con la sua storia, il suo cambio di umore, la sua tristezza per una cosa qualsiasi o un principio di allegria improvviso. Ritornavano a essere soltanto degli adolescenti.
- Com’è l’approccio didattico in corsia? Come coniugare programmi di studio con esigenze di ragazzi le cui vite sono stravolte dalla malattia e dal disagio?
Da un punto di vista ufficiale, non esiste più una procedura didattica formalizzata poiché i corsi preparatori alla cattedra in sezione ospedaliera sono stati tagliati anni fa e non sono mai stati obbligatori. Dal mio punto di vista, credo che l’approccio disciplinare più giusto sia seguire in modo quanto più fedele il programma della classe che ha lasciato temporaneamente il ragazzo/a che si sta curando in ospedale. Non bisogna inventare niente di speciale: già la malattia li rende tali agli occhi degli altri.
Basta dunque la varietà di contenuto delle singole materie a distrarre i pazienti-studenti dalle loro malattie, almeno il tempo della lezione. La differenza principale sta nell’essere sensibili ai loro malesseri, si stancheranno certamente prima di chi è in classe, anche perché di solito le lezioni in ospedale sono individuali e dunque più intense. Non deve esserci l’ossessione di fare un certo “tempo”, che come ho detto prima ha un valore molto diverso in ospedale: a volte lezioni di 25/30 minuti sono più che sufficienti e corrispondono a una lezione in classe di un’ora.
- In ospedale, Ida si rende conto di quanto le manchi la classe. Dice “Sai cosa mi manca? Il fatto di non essere mai interrotta quando parlo”. È proprio così? Cosa si cela dietro il silenzio di quei ragazzi che soffrono? Inoltre, se molto manca, c’è invece qualcosa in più che rende quest’esperienza assolutamente speciale?
I ragazzi in ospedale, oltre a soffrire di una sofferenza che spesso non può/vuole cercare parole per gli altri, si trovano l’insegnante molto vicino fisicamente (perché magari davanti al loro letto) senza poter “con/dividere” e spartire appunto quella vicinanza con altri studenti, perciò il rapporto comincia per forza di cose in modo ancora più sbilanciato che in classe: il potere incarnato dall’adulto è a pochi centimetri, e oltretutto l’adulto è sano mentre lo studente-paziente è malato; l’adulto è vestito, lo studente in alcuni casi è in pigiama pieno di tubicini che lo attraversano. Come fare? L’adulto deve subito attrezzarsi per far pesare la sua presenza il meno possibile, cercando di parlare piano, di mantenere comunque una certa distanza, di non invadere lo spazio già esiguo tra la sedia in cui siede e il letto di cura. Anche per questo il silenzio è l’unica difesa a disposizione di questi ragazzi che non hanno i loro compagni per chiacchierare, per distrarsi anche solo per un attimo dalla lezione. Il lato positivo di questa configurazione, però, sta nel fatto che anche l’insegnante non avendo a disposizione una cattedra dietro la quale nascondersi o iper-mostrarsi, ha un’occasione notevole per mettere in discussione il suo approccio didattico e quella vicinanza problematica di cui parlavo prima, può trasformarsi in un’intimità di solito impossibile in una classe di 20/25 studenti (quando va bene). In ospedale invece, la relazione uno/a a uno/a diventa momento culminante di un nuovo apprendimento che è prima di tutto su se stessi, sui propri limiti e su nuove possibilità da riconsiderare poi, anche una volta tornati in classe.
- La protagonista durante l’anno di insegnamento in ospedale compie “un percorso a ritroso”. Si rinnovano in lei, infatti, ricordi intensi della propria giovinezza. Ce ne vuol parlare?
Sì, è come se soltanto a contatto con delle fragilità molto forti all’interno però di un ambiente protetto che è l’ospedale, Ida si sia concessa di riportare completamente alla luce un rimosso che noi non sappiamo se lei ha mai raccontato a qualcuno, al compagno per esempio. Noi sappiamo soltanto (sia io che l’ho scritto che voi che leggete) che lei ha bisogno di rivivere in sé stessa delle esperienze traumatiche che hanno segnato la sua adolescenza e la sua vita, molto più di quanto lei non credesse.
- Cosa cambia nella protagonista dopo quest’esperienza? Quanto e come ha dato e quanto ricevuto?
Lei si specchia continuamente nei suoi studenti, non li considera mai altro da sé, ma al tempo stesso proprio attraverso di loro può accettare una fragilità condivisa (che è poi quella non solo dell’adolescenza ma dell’umanità tutta) e staccarsi per sempre da quella prima età in cui si è chiamati a dimostrare continuamente qualcosa al mondo, accorgendoci poi sempre che il mondo non ci ama abbastanza, né placherà mai quella fame di amore insaziabile propria dell’infanzia. Attraverso i suoi studenti, Ida accetta compiutamente di essere però anche distante da loro, poiché è entrata nell’età adulta, quella che in cui oggi nessuno vuole più entrare.
Ida Ragone riceve moltissimo dai suoi studenti, non so quanto i suoi studenti abbiano ricevuto da lei. Bisognerebbe scrivere un altro libro con la loro voce narrante.
- Quale valenza ha il ruolo di un insegnante? Quanto ci si sente adeguati o no di fronte ad ogni ragazzo ?
Il senso di inadeguatezza, se utilizzato come equilibrato metro di paragone tra quello che si è e quello che si vuole essere e dare ai ragazzi, può essere lo strumento più efficace per non accontentarsi mai della situazione data, come spesso si è portati a fare, parlando spesso dentro se stessi con una serie di frasi stereotipate: quel ragazzo o ragazza non ce la fanno, oppure sono distratti, oppure non ce la faccio io, ecc. Capisco che lo stereotipo aiuti il quotidiano, innestando una maggiore velocità rispetto al pensiero critico, ma talvolta è necessario fermarsi, come accade appunto nel tempo congelato dell’Anno breve in cui Ida Ragone cambiando abitudini, spazi e tempi, può ripensare al suo essere insegnante non solo lì dentro in ospedale, ma soprattutto a come è stata nelle scuole precedenti e come potrà essere nel futuro. C’è una scena in cui Ida spiega Jacopo Ortis a Giulia e si accorge, dalle sue domande continue sul lessico (possibili solo grazie al fatto che sono solo loro due e la prof Ragone è totalmente disponibile per lei e per i suoi dubbi), che anche i ragazzi degli anni precedenti magari non avevano capito delle parole per la prof banali come: canuto, morboso, ecc. però non avevano osato interrompere la lezione tutte quelle volte, e quindi cosa avevano capito alla fine di quel libro?
- Ancora complimenti per il romanzo. Speriamo di risentirci presto. Qualche accenno a progetti futuri?
Grazie molte a voi per l’attenzione che avete dato all’Anno breve. In questo momento sto scrivendo un romanzo che parla di amore come forza elementare di sopravvivenza che consente al più debole di avere la meglio sul più forte e farsi così proteggere. In altre parole è la storia di tre uomini, una donna e un bambino. Titolo: Paesaggio americano.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Caterina Venturini ci presenta “L’anno breve” in un’intervista
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